Neet: chi e quanti sono in Italia e in Europa? Sono chiamati Neet, acronimo inglese che sta per “neither in employment nor in education or training” o “not in education, employment or training”, e sono i giovani del terzo millennio, figli dei mutamenti sociali, economici e culturali, e le loro situazioni sono molto diverse tra loro.
Nello specifico, sono gli inattivi, coloro che non studiano, non lavorano e non sono impegnati in percorsi formativi. L’acronimo compare per la prima volta nel 1999 in uno studio della Social Exclusion Unit, un dipartimento del
governo del Regno Unito preoccupato che i giovani “Not in Education, Employment or Training” fossero in una condizione di esclusione tale da favorire l’avvio di carriere criminali.
In Italia sono 2.116.000 i giovani NEET, secondo gli ultimi dati dell’Istat, e la loro condizione è strettamente associata alla fase di transizione all’età
adulta, in cui si passa da giovane ad adulto. La sociologia ci insegna che la transizione nel modello di società occidentale è segnata da cinque tappe: l’uscita dalla casa dei genitori, il completamento del percorso educativo, l’ingresso nel mercato del lavoro, la formazione di una famiglia ed infine l’assunzione di responsabilità verso i figli.
A partire dagli anni ’70-’80 questa fase ha cominciato a diventare sempre più lunga. Se prima il modello era “scuola-lavoro-famiglia”, più o meno alla stessa età per tutti, oggi, però, il percorso è molto più disuguale, personalizzato e imprevedibile.
Se da un lato è più difficile, oggi, per loro, entrare nel mondo del lavoro, è vero anche che, rispetto a prima, si studia di più, si viaggia di più, ci si diverte di più. Insomma, si diventa grandi più tardi per necessità ma, diciamolo, anche per piacere o, per meglio dire, per “dolcefarniente”.
L’influente rapporto dedicato ai NEET da Eurofound, un’agenzia di ricerca dell’Unione Europea, individua cinque sottogruppi all’interno del mondo NEET:
Insomma, una categoria eterogenea, dove c’è l’hikikomori, letteralmente “stare in disparte” che viene utilizzato, in gergo, per riferirsi a chi decide di ritirarsi dalla vita sociale per lunghi periodi, chi non esce mai di casa, insomma, ma anche il/la neolaureato/a che si prende un anno “sabbatico ” per girare il mondo.
Si comincia, semplicemente, smettendo di studiare, ma senza iniziare a lavorare, viaggiando o stando in casa, come si diceva. Ci sono dei fattori socio-economici che incidono sulla condizione di NEET. Quali sono questi fattori? Il rapporto Eurofound li riassume così:
Con la pandemia in Italia sono aumentati gli inattivi o i Neet, stando in un rapporto trimestrale sull’occupazione pubblicato dall’esecutivo Ue (fonte Ansa). Nel nostro Paese i giovani tra i 15 e i 24 anni che non lavorano né studiano hanno raggiunto il 20,7% nel secondo trimestre del 2020, seguono la Bulgaria (15,2%) e la Spagna (15,1%).
In generale, in tutta l’Ue il tasso di Neet è aumentato all’11,6% nel secondo trimestre del 2020 rispetto allo stesso trimestre del 2019. Mentre il tasso di attività delle persone tra i 15 e i 64 anni è sceso al 72,1% in tutta l’Ue. Nell’Ue, poi, le misure per il Covid sono riuscite ad attutire i cali del reddito da lavoro dipendente soprattutto nei lavoratori meno pagati. Mentre solo in Italia e in Austria le persone con reddito medio hanno avuto una minore riduzione del salario rispetto a chi percepisce stipendi più bassi.
Nell’aprile 2013, è stata adottata la proposta della Commissione europea al Consiglio dell’Unione europea di attuare una Garanzia per i giovani in tutti gli Stati membri. Ridurre il numero di NEET è un obiettivo politico esplicito della Garanzia per i giovani. Questa iniziativa mira a garantire che tutti i giovani di età compresa tra i 15 e i 24 anni ricevano un’offerta di lavoro di qualità, formazione continua, apprendistato o tirocinio entro quattro mesi dalla disoccupazione o dal completamento dell’istruzione formale.
Qualcosa si può fare, se è vero che ci sono contesti in cui la sua diffusione è molto minore che in altri. Sono tre le istituzioni cruciali quando parliamo di giovani NEET: il sistema educativo, il sistema di welfare e il mercato del lavoro. Le politiche che vogliono intervenire sul fenomeno devono quindi intervenire sul funzionamento di queste tre istituzioni, creando un contesto dove i giovani abbiano la possibilità e il desiderio di studiare, lavorare e vivere appieno come cittadini “attivi” e, va da sé, giocoforza, prevenendo e/o contrastando l’abbandono scolastico…
Sono nata a Modena, correva l’anno 1972, modenese da generazioni (e me ne vanto), ma ligure di adozione dal 2007. La mia Genova, un po’ matrigna. Ti respinge, ma poi ti ama… Ho sempre sognato di fare la scrittrice: ero convinta che quel mestiere mi avrebbe portato a scoprire il mondo. Reporter di viaggi e inviata stampa, per vent’anni, esclusivamente sulla carta stampata, tra premi letterari e il profumo di qualche libro a mia firma. E poi? Un balzo sul digitale, nell’anno bisestile e, dulcis, al tempo del Coronavirus. Amante viscerale degli animali, della natura, del mare, dell’avventura, del viaggiare al di là dei confini del mappamondo per raccontare i veri luoghi e la vera vita della gente del mondo. Appassionata di comunicazione, letteratura di viaggio, sociale, cronaca di vita, fotografia, musica e libri. E di racconti, di storie, di tante storie da raccontare…
In Guinea ritorna l’epidemia di Ebola. L’allarme arriva dopo la scoperta di sette casi di febbre emorragica. Non bastava la Covid-19, nel mondo, ora torna anche l’Ebola.
In piena pandemia Covid, mentre da più parti in Italia gli esperti invocano un nuovo lockdown nazionale o l’alternanza delle zone a colori, si torna a parlare di Ebola. L’Africa occidentale sta affrontando la sua prima recrudescenza del virus Ebola dalla fine dell’epidemia devastante, che ha colpito il continente tra il 2013 e il 2016, la peggiore mai registrata del virus, causando oltre 11.300 morti in 10 Paesi della regione.
Anche allora l’epidemia era iniziata in Guinea, nella stessa regione sud-orientale dove sono stati scoperti i nuovi casi. Il virus è stato identificato per la prima volta nel 1976 nello Zaire, oggi Repubblica Democratica del Congo. Il caso iniziale, il cosiddetto paziente indice, è stato segnalato nel dicembre 2013.
Si ritiene che un ragazzo di 18 mesi di un piccolo villaggio della Guinea sia stato infettato da pipistrelli. Dopo che in quella zona si sono verificati altri cinque casi di diarrea fatale, il 24 gennaio 2014 è stato emesso un allarme medico ufficiale ai funzionari sanitari del distretto.
La prima ondata di Ebola fu identificata ufficialmente il 23 marzo 2014 dall’Organizzazione mondiale della sanità, con 49 casi confermati e 29 decessi, nella regione rurale boscosa della Guinea sud-orientale. Questi primi casi segnarono l’inizio dell’epidemia di Ebola in Africa occidentale, la più grande nella storia.
Il capo dell’Agenzia nazionale per la sicurezza sanitaria Sakoba Keita ha spiegato che una persona è morta alla fine di gennaio a Gouecke, nella Guinea sud-orientale, vicino al confine con la Liberia. La vittima è stata sepolta il 1° febbraio e alcuni giorni dopo alcune persone che hanno preso parte al funerale hanno iniziato ad avere diarrea, vomito, sanguinamento e febbre: i sintomi tipici dell’Ebola.
Il nuovo focolaio è scoppiato in Guinea dopo che tre persone sono morte e almeno sette nuovi casi del virus mortale sono stati confermati, tanto che il primo ministro Ibrahima Kassory Fofana ha subito parlato di “epidemia”.
Non avveniva da 5 anni. Tutte le persone che sono state a contatto sono in isolamento. La presenza dell’Ebola è stata confermata da un laboratorio della capitale. I casi sono stati riscontrati nella regione di Nzerekore, dove nel 2013 era scoppiata l’epidemia.
Però, il lato positivo è che sia la Guinea che l’OMS hanno affermato di essere meglio preparate ad affrontare l’Ebola ora rispetto a cinque anni fa grazie ai buoni progressi sui vaccini.
Guinea, Sierra Leone e Liberia hanno sopportato il peso della precedente epidemia, ma come molti Paesi dell’Africa occidentale, la Guinea ha risorse sanitarie limitate. Senza considerare che ha anche registrato circa 15mila casi di Covid e 84 morti.
Ebola, un virus estremamente aggressivo e, spesso fatale, che appartiene alla famiglia dei Filoviridae, e la cui letalità varia dal 25% al 90%, a seconda del ceppo. La trasmissione avviene attraverso il contatto con sangue, secrezioni, organi o altri fluidi corporei di animali infetti. In Africa è stata documentata l’infezione a seguito di contatto con scimpanzé, gorilla, pipistrelli della frutta, scimmie, antilopi e porcospini trovati malati o morti nella foresta pluviale.
Il contagio è più frequente tra familiari e conviventi, per l’elevata probabilità di contatti e, generalmente, in condizioni igienico-sanitarie precarie. In 4 casi è stata documentata anche la trasmissione per via sessuale. Infezioni asintomatiche sono state documentate in uomini adulti in buona salute a contatto con scimmie o maiali infetti da un particolare ceppo di Ebola chiamato Restv.
L’infezione si manifesta con un decorso acuto: i soggetti malati sono contagiosi fino a quando il virus è presente nel sangue e nelle secrezioni biologiche. L’incubazione può andare da 2 a 21 giorni, a cui fanno seguito generalmente sintomi acuti caratterizzati da febbre, astenia, mialgie, artralgie e cefalea.
Mentre il mondo combatte contro la pandemia Covid-19, da quasi un anno, anche grazie ai vaccini, la cui efficacia (un nuovo studio Pfizer, in Israele, lo dà efficace), per l’Ebola non esiste ancora una cura.
Ad oggi, in fase di valutazione, esiste una ampia gamma di potenziali trattamenti tra cui emoderivati, terapie immunitarie e terapie farmacologiche in grado di migliorarne, quantomeno, la sopravvivenza.
Sono nata a Modena, correva l’anno 1972, modenese da generazioni (e me ne vanto), ma ligure di adozione dal 2007. La mia Genova, un po’ matrigna. Ti respinge, ma poi ti ama… Ho sempre sognato di fare la scrittrice: ero convinta che quel mestiere mi avrebbe portato a scoprire il mondo. Reporter di viaggi e inviata stampa, per vent’anni, esclusivamente sulla carta stampata, tra premi letterari e il profumo di qualche libro a mia firma. E poi? Un balzo sul digitale, nell’anno bisestile e, dulcis, al tempo del Coronavirus. Amante viscerale degli animali, della natura, del mare, dell’avventura, del viaggiare al di là dei confini del mappamondo per raccontare i veri luoghi e la vera vita della gente del mondo. Appassionata di comunicazione, letteratura di viaggio, sociale, cronaca di vita, fotografia, musica e libri. E di racconti, di storie, di tante storie da raccontare…
Covid, esistono persone immuni “per natura”? La Covid-19, con cui si convive da un anno, per molti aspetti è ancora un mondo sconosciuto. Perché alcuni sono immuni al coronavirus “per natura”. La scienza spiega “perché”, analizzando i casi delle persone che non si sono infettate nonostante fossero a contatto ravvicinato con familiari e amici contagiati. Negativi, eppure sempre accanto a familiari positivi.
Ci sono persone che non vengono contagiate dalla Covid anche se convivono e si prendono cura di positivi sintomatici, magari anche in condizioni gravi. Com’è possibile? Oltre alla categoria degli asintomatici ci sarebbe quindi quella dei “resistenti? Il merito sarebbe del sistema immunitario, ma i meccanismi della protezione vanno studiati a fondo.
Di casi simili ce ne sono migliaia, tanto da spingere oltre 250 laboratori in tutto il mondo, coordinati dalla Rockfeller University di New York ad indagare.
L’ipotesi, secondo un team di lavoro di scienziati e genetisti di Tor Vergata, è che esistano dei geni che rendono alcuni soggetti più protetti dal contagio. I casi di persone che hanno vissuto a stretto contatto con malati Covid, ma non sono mai state infettate sono al vaglio dei ricercatori italiani, che stanno analizzando i dati assieme a un consorzio internazionale.
«Quando c’è una pandemia i fattori in gioco sono il patogeno, l’ospite e l’ambiente, ossia il contesto in cui si sviluppa l’infezione – spiega Giuseppe Novelli, genetista del policlinico Tor Vergata di Roma e presidente della Fondazione Giovanni Lorenzini di Milano – Noi ci siamo concentrati sulla seconda. Studiamo il Dna delle persone, facciamo correlazione statistica in base all’età e al sesso».
“Ci siamo prima concentrati sui malati gravi e abbiamo scoperto che esiste un 10-12 per cento di casi che hanno una caratteristica genetica particolare, non riescono cioè a produrre interferone che è la prima molecola di difesa – spiega ancora Novelli – Sulla base di questa esperienza ci siamo chiesti se ci sono differenze genetiche in quelli che noi chiamiamo i “resistenti”, cioè persone che quando convivono con un soggetto che è certamente positivo non solo non si ammalano, ma non si infettano nemmeno”.
Ma per scoprire perché serve tempo. Il tema è infatti complesso, l’immunità non è data solo dagli anticorpi, c’è anche quella cosiddetta cellulare, che mantiene la memoria nel tempo, molto più a lungo degli anticorpi che possono anche scomparire.
Una risposta, insomma, al momento sembra non esserci: il dibattito è aperto e la scienza ha la necessità di tempo per passare dal campo delle ipotesi a quello delle evidenze.
Sono nata a Modena, correva l’anno 1972, modenese da generazioni (e me ne vanto), ma ligure di adozione dal 2007. La mia Genova, un po’ matrigna. Ti respinge, ma poi ti ama… Ho sempre sognato di fare la scrittrice: ero convinta che quel mestiere mi avrebbe portato a scoprire il mondo. Reporter di viaggi e inviata stampa, per vent’anni, esclusivamente sulla carta stampata, tra premi letterari e il profumo di qualche libro a mia firma. E poi? Un balzo sul digitale, nell’anno bisestile e, dulcis, al tempo del Coronavirus. Amante viscerale degli animali, della natura, del mare, dell’avventura, del viaggiare al di là dei confini del mappamondo per raccontare i veri luoghi e la vera vita della gente del mondo. Appassionata di comunicazione, letteratura di viaggio, sociale, cronaca di vita, fotografia, musica e libri. E di racconti, di storie, di tante storie da raccontare…
Il primo volo non-stop della compagnia di linea indiana guidato da 4 donne pilota: il comandante Zoya Aggarwal assieme a Papagiri Thanmai, Akansha Sonaware e Shivani Manhasche sono entrate a far parte della storia. Un’impresa unica che è valsa un’inversione di “rotta” nelle convenzioni di genere radicato nella nostra società, non soltanto nel campo dell’aviazione.
Il Boeing 777 di Air India ha percorso 8.600 miglia per 17 ore senza mai fermarsi, percorrendo la tratta San Francisco – Bengaluru, sorvolando il Polo Nord. Ad attendere l’AI-176 all’aeroporto di Kempegowda una folla stava attendendo le 4 eroine, simbolo di un’inversione di rotta nelle convenzioni di genere. Sì, perché le cabine di pilotaggio sono popolate esclusivamente da uomini, mentre alle donne è riservato il ruolo delle assistenti di volo.
Basti pensare che solo il 5% delle donne sono piloti, mentre è di sesso femminile l’80% degli assistenti di volo in tutto il mondo.
In questo panorama di disuguaglianze, l’India si pone in controtendenza, con un 12% dei piloti che sono donne: è la percentuale più alta al mondo.
“Ormai tra noi e gli uomini non c’è più alcuna differenza, – ha dichiarato il comandante Papagari alla Cnn – siamo viste come piloti“.
Quando le 4 donne-pilota sono arrivate al gate dopo 17 ore di volo, hanno alzato il pollice, soddisfatte e fiere dell’impresa portata a termine.
Questo momento storico è stato immortalato in una foto pubblicata su Twitter con l’hashtag #womanpower, per festeggiare il doppio record!
Due record in un solo colpo. Oltre ad essere il primo volo commerciale e il più lungo in assoluto, pilotato da donne, il Boeing 777 è stato il primo volo della compagnia indiana ad aver raggiunto un obiettivo green, con un risparmio di 10 tonnellate di carburante. Una rotta eccezionale, un viaggio che ha richiesto più di un anno di preparazione perché il comandante Zoya Aggarwal si abituasse a durata del viaggio, radiazioni solari e conoscenza delle piste di atterraggio.
La prima bella notizia dell’anno, al tempo della Covid, tra emergenza sanitaria, crisi di governo e “paralisi”, o quasi, della mobilità: una sfida culturale “rosa” firmata 2021 che cambierà la storia.
Sono nata a Modena, correva l’anno 1972, modenese da generazioni (e me ne vanto), ma ligure di adozione dal 2007. La mia Genova, un po’ matrigna. Ti respinge, ma poi ti ama… Ho sempre sognato di fare la scrittrice: ero convinta che quel mestiere mi avrebbe portato a scoprire il mondo. Reporter di viaggi e inviata stampa, per vent’anni, esclusivamente sulla carta stampata, tra premi letterari e il profumo di qualche libro a mia firma. E poi? Un balzo sul digitale, nell’anno bisestile e, dulcis, al tempo del Coronavirus. Amante viscerale degli animali, della natura, del mare, dell’avventura, del viaggiare al di là dei confini del mappamondo per raccontare i veri luoghi e la vera vita della gente del mondo. Appassionata di comunicazione, letteratura di viaggio, sociale, cronaca di vita, fotografia, musica e libri. E di racconti, di storie, di tante storie da raccontare…
L’Artico “invaso” dalle fibre sintetiche, di microplastiche e la colpa è del bucato che, ogni giorno, fanno praticamente tutte le famiglie del mondo. Le fibre sintetiche costituiscono ben il 92% delle microplastiche trovate nelle acque di superficie e, di queste, il 73% sono fatte di poliestere, materiale usato nei tessuti sintetici. La scoperta, pubblicata sulla rivista Nature Communications si deve ai ricercatori coordinati da Peter Ross, della canadese Ocean Wise Conservation Association, a Vancouver.
Il dato, osservano gli autori della ricerca, indica che i tessuti sintetici, attraverso il bucato e lo scarico delle acque reflue, possono avere un ruolo importante nella contaminazione degli oceani. “Il bucato – si legge nello studio – si sta rivelando un canale potenzialmente importante per il rilascio di microfibre nelle acque. Noi recentemente abbiamo stimato che un singolo capo di abbigliamento può rilasciare milioni di fibre durante un tipico lavaggio domestico”.
Per avere una stima delle dimensioni dell’inquinamento da microplastica nell’Artico i ricercatori hanno analizzato 2016 campioni d’acqua raccolti vicino alla superficie (da 3 a 8 metri di profondità) in 71 stazioni nell’Artico europeo e nordamericano (comprese aree vicine al Polo Nord). E’ stata così calcolata la presenza, in media, di circa 40 particelle di microplastiche per metro cubo d’acqua.
Inoltre, la maggior parte delle particelle (quasi tre volte in più), è stata trovata nell’Artico orientale rispetto a quello occidentale e ciò suggerisce che nuove fibre di poliestere vengano trasportate nell’Oceano Artico orientale dalle correnti dell’Atlantico.
In generale, però, tutte le microplastiche sono fonte di preoccupazione, avendo raggiunto i confini più remoti del mondo, dall’Himalaya alle profondità oceaniche. Microplastiche erano già state individuate nell’Artico, sulla banchisa, nell’acqua di mare e nei sedimenti del fondo marino. Tuttavia, restavano dubbi sulla loro distribuzione, sulle fonti e sull’entità della contaminazione.
Siamo riusciti, nel corso dei secoli, grazie alla nostra capacità distruttiva, ad inquinare i tre elementi: l’aria, l’acqua, la terra.
Eppure, basterebbe ritornare alla consapevolezza che io sono me più il mio ambiente e, se non preservo quest’ultimo, non preservo me stesso. Dovremmo imparare ad essere, un po’ tutti, ecologisti. L’ecologista non è l’uomo che dice che il fiume è sporco. L’ecologista è l’uomo che pulisce il fiume.
Bisogna, davvero, essere una mare, per ricevere un flusso inquinato senza diventare impuri.
(Friederich Nietzsche)
E quindi? Non inquinare – i pianeti buoni sono difficili da trovare…
Sono nata a Modena, correva l’anno 1972, modenese da generazioni (e me ne vanto), ma ligure di adozione dal 2007. La mia Genova, un po’ matrigna. Ti respinge, ma poi ti ama… Ho sempre sognato di fare la scrittrice: ero convinta che quel mestiere mi avrebbe portato a scoprire il mondo. Reporter di viaggi e inviata stampa, per vent’anni, esclusivamente sulla carta stampata, tra premi letterari e il profumo di qualche libro a mia firma. E poi? Un balzo sul digitale, nell’anno bisestile e, dulcis, al tempo del Coronavirus. Amante viscerale degli animali, della natura, del mare, dell’avventura, del viaggiare al di là dei confini del mappamondo per raccontare i veri luoghi e la vera vita della gente del mondo. Appassionata di comunicazione, letteratura di viaggio, sociale, cronaca di vita, fotografia, musica e libri. E di racconti, di storie, di tante storie da raccontare…
L’emergenza cultura al tempo della Covid-19 è un tema “che scotta”, eppure silenzioso. I musei, i teatri, i cinema, la musica rivivono il tempo del silenzio. Un tempo che evidenzia ancor di più l’importanza della cultura per la resilienza delle nostre società.
Ignorati dalla legge e destinati ad un’attesa senza fine. Sono i lavoratori dello spettacolo, strangolati nella morsa della Covid, fase dopo fase, e il cui disagio avanza mentre si spengono i riflettori.
L’infrastruttura del settore culturale è adatta a gestire le grandi sfide di oggi? Il tema è molto attuale considerando la chiusura di teatri, cinema, e musei in molti Paesi europei, e ha come obiettivo quello di interrogarsi soprattutto su dove trovare le risorse per garantire una sopravvivenza del settore e anche come ridisegnare le infrastrutture culturali per garantirne la resilienza.
Come possiamo contribuire a creare a livello europeo un’Emergenza Cultura come è stato per il tema dell’ambiente? Sì, perché finché la Cultura (ndr, con la C maiuscola) non potrà sedere al tavolo delle priorità assolute nei programmi di emergenza insieme alla Salute e all’Istruzione, la Cultura (ibidem) è a rischio e agonizza fra manovre temporanee ed insufficienti a garantirne la sopravvivenza e a costruire le premesse per il suo presente e tanto più per il suo futuro.
In risposta alla crisi, il tema Being Present (Essere Presenti) diventa un importante chiave per esplorare le opportunità emergenti per i settori della cultura in Italia e nel Mondo, in un momento in cui stiamo rivalutando ciò che significa Essere presenti, sia nello spazio fisico che in quello virtuale.
Interessante, a tal riguardo, l’iniziativa UK/Italy Season 2020 ,un programma di eventi culturali, in formato digitale, ideato dal British Council e realizzato grazie alla collaborazione di partner nel Regno Unito e in Italia, con lo scopo di supportare scambi culturali a livello internazionale e di creare comunità più resilienti.
Tra le filiere produttive più colpite dal Coronavirus c’è quella del mondo dello spettacolo. Un settore che, in Italia, occuperebbe 570mila persone.
Il coronavirus dà la stretta finale al settore, soprattutto la compagine legata al teatro, al cinema (-98% di incassi al botteghino rispetto alla scorsa estate), alla musica classica e leggera, alla musica jazz, non ultimo, ormai da anni in crisi per mancanza di adeguati investimenti.
Si stima che il 70% delle aziende del comparto cultura e intrattenimento dovrà affrontare un calo sul fatturato di oltre il 40% e 840mila lavoratori temono per la mancanza di occupazione e per il loro futuro così incerto. Si sentono dimenticati, abbandonati da chi avrebbe dovuto tutelarli al momento opportuno, gli stessi attori chiave che sembrano non comprendere a pieno l’importanza e il ruolo della produzione culturale nel funzionamento dei sistemi sociali ed economici.
L’emergenza sanitaria ha dettato nuovi ritmi e nuove priorità, grazie a tecnologie e strumenti che hanno permesso anche di ampliare l’offerta culturale contribuendo a quella che è diventata, mai come da un anno, una vera e propria svolta digitale: è così che la cultura riparte e va a riprendersi con tenacia il ruolo di collante della società.
App e piattaforme progettate ad hoc saranno le risorse privilegiate che potenzieranno un approccio human-centric, amplificando l’esperienza immersiva delle persone nei luoghi, nelle opere, nella musica e negli eventi culturali in programma.
Ci viene chiesto, quindi, di imparare, sempre più, un nuovo modo di viaggiare, di spaziare, di vivere e viversi, grazie a un nuovo modo di pensare alla cultura, e nel pieno rispetto della norme di sicurezza, tutto questo sarà possibile. La tecnologia digitale può venire in soccorso della cultura, salvare il nostro patrimonio e risollevarlo da un incubo che sta durando troppo a lungo, con ricadute a 360 °gradi.
Sì, perché le questioni prettamente occupazionali, in questo settore, si intersecano costantemente con l’importanza di continuare a produrre e diffondere cultura. Se da un lato al pubblico viene preclusa la possibilità di distrarsi dal contingente, reso logorante dalla pandemia, a chi ci lavora, nel comparto culturale, dall’altro, viene sottratta ogni risorsa per vivere: economica e di dignità occupazionale. E, un mondo senza cultura, arte e musica è un mondo che perde colore e senso di appartenenza ad una comunità globale.
La Cultura, va detto, non si ferma – e non si è mai fermata – nemmeno al tempo della Covid-19, a quasi un anno da quando il presidente Conte ha firmato il Dpcm 23 febbraio 2020 che introduceva misure urgenti in materia di contenimento e gestione dell’emergenza epidemiologica, ma semplicemente cambia e muta le sue forme di espressione, la sua modalità di fruizione “virtuale”, appunto.
Anche da casa possiamo viaggiare (con la mente), leggere e cibarci di cultura, auspicando, presto, ad un ritorno – anche migliore – alla normalità.
Perché, alla fin fine, ogni volta che un teatro serra le porte, un cinema interrompe le proiezioni e un concerto viene annullato, beh, la sensazione netta che si avverte è che un pezzettino dell’impalcatura che sorregge la cultura italiana si arrugginisce. Non è lo stesso anche per voi?
Sono nata a Modena, correva l’anno 1972, modenese da generazioni (e me ne vanto), ma ligure di adozione dal 2007. La mia Genova, un po’ matrigna. Ti respinge, ma poi ti ama… Ho sempre sognato di fare la scrittrice: ero convinta che quel mestiere mi avrebbe portato a scoprire il mondo. Reporter di viaggi e inviata stampa, per vent’anni, esclusivamente sulla carta stampata, tra premi letterari e il profumo di qualche libro a mia firma. E poi? Un balzo sul digitale, nell’anno bisestile e, dulcis, al tempo del Coronavirus. Amante viscerale degli animali, della natura, del mare, dell’avventura, del viaggiare al di là dei confini del mappamondo per raccontare i veri luoghi e la vera vita della gente del mondo. Appassionata di comunicazione, letteratura di viaggio, sociale, cronaca di vita, fotografia, musica e libri. E di racconti, di storie, di tante storie da raccontare…
Viaggi e cultura di viaggio: un “viaggio” tra un prima e un dopo. Oggi, il contagio da coronavirus ha ridisegnato, e tuttora, le logiche delle frontiere. E noi italiani siamo diventati, fin dall’inizio della pandemia, e in poche ore, quelli da “tener sott’occhio”.
C’è stato un prima coronavirus, e un dopo: il 2020, annus horribilis. II 2021, appena iniziato, non si prospetta certamente più roseo. E domani? Beh, “del doman non v’è certezza” ed è più facile dire cosa non faremo nei prossimi mesi piuttosto di quel che faremo.
C’era una volta il viaggio fatto di partenze e ritorni: un bel ricordo. Certamente, oggi, “a portata di click” c’è solo il mondo virtuale e non più quello reale. Voli a lungo raggio sospesi, si andrà verso il turismo di turismo di prossimità e, forse, neppure quello, dpcm dopo dpcm… Non solo nel turismo, ma anche nei rapporti sono privilegiati quelli di prossimità: non più gruppi, ma soli o in pochi, meglio se “congiunti”; gli amici al telefono o su zoom e sguardo ansioso (quando non assassino) se qualche estraneo si avvicina troppo. Prevale un senso generale di insicurezza e di preoccupazione, per qualcuno di paura, sia sul fronte economico che della salute.
Il viaggio al tempo della Covid-19 e post-covid tornerà a essere come quello pre-globalizzazione (con i suoi limiti e i suoi aspetti positivi)?
Di nuovo è più facile dire ciò che non sarà piuttosto che ciò che sarà. Sarà necessario rivedere le modalità di viaggio cui eravamo abituati, ridimensionare abitudini e desideri, ma non è facile immaginare come. Di certo, i nostri viaggi, non solo quelli al tempo della Covid-19, ma anche in seguito, saranno in un mondo dove sono tornate delle barriere fisiche e mentali che pensavamo definitivamente superate e che non aggiungono profondità allo sguardo, non restituiscono tempo, ma piuttosto limitano le possibilità di contatto e la libertà di scelta e di movimento.
In realtà, a ben pensarci, nuovi confini e divisioni erano già apparsi prima dell’arrivo della pandemia che ha funzionato da terribile acceleratore, ma nessuno avrebbe immaginato potessero essere di tale portata.
Ripartirò per un viaggio, quindi? Ripartirò, ripartiremo, probabilmente in meno, e per meno tempo, e per destinazioni più vicine. Molte cose cambieranno nel mio, nel nostro modo di viaggiare. Il viaggio sarà un po’ meno un bene di consumo, dato quasi per scontato, sarà più individuale e su misura, più pensato e desiderato, forse più consapevole e attento all’ambiente, più ricercato e meno “commerciale”.
Gli spostamenti, quando cresce il pericolo di un contagio, sono chiaramente più complicati. E la situazione attuale non sarà quella definitiva. In generale, infatti, è molto probabile che, essendo in una fase in costante evoluzione, anche le regole per chi viaggia possono variare in breve tempo.
Lo tsunami che si è abbattuto sui viaggi, il grido di dolore degli operatori e delle associazioni si leva all’unisono e mette nero su bianco, per l’ennesima volta, una situazione drammatica qual è l’improvvisa e drastica contrazione dei flussi turistici alla stregua dell’emergenza cultura.
La metà dei turisti in Italia è straniero. Il crollo del mercato internazionale, provocato dall’emergenza sanitaria, si è abbattuto, dunque, sul turismo italiano come un devastante tsunami. Per la ripresa ci vorrà almeno un triennio. Il viaggio, di riflesso, diventerà sempre più come “bene di lusso”? Quanti si potranno ancora permettere di viaggiare? Nascerà, presumibilmente, una nuova forma di turismo, a costo zero?
Però, in fondo, siamo tutti viaggiatori nati. Abbiamo polvere di stelle nelle vene, cartine geografiche con strade d’argento negli occhi e istruzioni per viaggiare fino a Andromeda…Poi? Verso l’infinito e oltre!
Sono nata a Modena, correva l’anno 1972, modenese da generazioni (e me ne vanto), ma ligure di adozione dal 2007. La mia Genova, un po’ matrigna. Ti respinge, ma poi ti ama… Ho sempre sognato di fare la scrittrice: ero convinta che quel mestiere mi avrebbe portato a scoprire il mondo. Reporter di viaggi e inviata stampa, per vent’anni, esclusivamente sulla carta stampata, tra premi letterari e il profumo di qualche libro a mia firma. E poi? Un balzo sul digitale, nell’anno bisestile e, dulcis, al tempo del Coronavirus. Amante viscerale degli animali, della natura, del mare, dell’avventura, del viaggiare al di là dei confini del mappamondo per raccontare i veri luoghi e la vera vita della gente del mondo. Appassionata di comunicazione, letteratura di viaggio, sociale, cronaca di vita, fotografia, musica e libri. E di racconti, di storie, di tante storie da raccontare…