Una storia da raccontare: “le otto montagne”. Un film, o meglio un romanzo fotografico, in cui memoria e ricordi sono il filo conduttore di una storia di amicizia e amore dai confini labili, molto labili, palpabili tanto intensi, di figure paterne presenti e assenti, di sentieri, ruscelli, petraie, valli e cime innevate, sogni e illusioni mescolate a forme di dipendenze, e di silenzi parlanti.
La montagna non è solo natura incontaminata. “E’ un modo di vivere la vita. Un passo davanti all’altro, silenzio, tempo e misura” (Paolo Cognetti). Il padre capo cordata che poi si farà vecchio e, a sua volta, verrà trascinato da quei bambini che diventeranno uomini.
Due bambini che si incontrano e non si lasciano più, anche quando la vita li allontana, apparentemente per sempre, e di un luogo in cui ritrovarsi e riconoscersi, da grandi come allora.
Due bambini così diversi, ma che sanno scegliersi, in quell’estate, tra i campi fioriti e le mucche da portare al pascolo.
Pietro è un ragazzino di città, nato e cresciuto in una famiglia borghese di Torino dove non si possono dire le parolacce.
Bruno, invece, è l’ultimo bambino di un paesino di montagna il cui padre non c’è mai e, quando ritorna, se lo porta via per fargli fare il muratore a dieci anni. E…le parolacce le dice eccome.
Passano gli anni, Bruno rimane fedele alle sue montagne, mentre Pietro andrà via per poi tornare sempre lì.
Una storia da raccontare: “le otto montagne”
Una centrifuga di emozioni: i loro dialoghi, le loro promesse, quella di un padre che diventa la loro eredità, i loro silenzi, gli sguardi, quegli abbracci, quel diario ritrovato in vetta, e ben nascosto tra le pietre, le corse e quel senso di appartenenza che non conosce confini.
Quel richiamo alle cime del Grenon, in Valle d’Aosta, il lago di Frudières, quel costante desiderio di sfidare la vita con i suoi schemi, di deviare dalla retta via (ha un nome, poi?…) li accomuna sempre, nonostante le partenze e gli arrivi e lo ‘stare’ di chi rimane sempre lì.
In una scena del film, in una notte di instancabili bevute e risate, Pietro disegna su un taccuino un cerchio che simboleggia il mondo. Al centro c’è la montagna più alta, il Sumeru, circondata da otto mari e otto montagne (ndr, ecco il senso del nome del film).
La domanda è: chi ha imparato di più? Chi ha visitato “le otto montagne” (Pietro) o chi ha raggiunto la vetta del Sumeru (Bruno)?
Un ambientazione da togliere il fiato, le Alpi e il Nepal, un sali e scendi dalle vette, un andare per conquistarsi un posto nel mondo, un rimanere che è ancorarsi alle radici del cuore.
Il film si snoda attraverso quella domanda e mette a nudo i percorsi opposti dei due.
I confini oltre le otto montagne
Se già il film “Le otto montagne” è ad alto impatto emotivo, la fotografia non è da meno: fatta di inquadrature fisse, zoom, campi larghissimi con i quali i due registi seguono il passare degli anni e delle stagioni scegliendo nel formato 4:3 di immortalare le montagne in tutta la loro maestosità tesa verso l’alto.
Di un amore che prova a sfidarsi sulle frequenze dell’altro, anche quando si è soli a sentire il diverso ritmo della vita e, giocoforza, a decidere che direzioni prendere.
Dal film
“Stavo imparando che cosa succede a uno che va via: che gli altri continuano a vivere senza di lui”. (Paolo Cognetti).
“Qualunque cosa sia il destino, abita nelle montagne che abbiamo sopra la testa”. (Ibidem)
– P. ” Guarda che c’è un mondo fuori da qui. Questo confine te lo sei inventato tu”.
– B. ” Non ti preoccupare per me: questa montagna non mi ha mai fatto male”.
[…]
Non potevo farmi un regalo migliore ad inizio anno. Ma, si sa, nulla è casuale. Ogni giorno arriva con i propri doni. Oggi, ho scelto di sciogliere i suoi fiocchi.
Un ottovolante – questo regalo a me stessa – di sentimenti liberi, e a spasso per il cuore. Come per ricominciare, anche io, un nuovo viaggio verso l’infinito.
Ti viene voglia di caricare lo zaino sulle spalle e partire alla conquista di una cima.
Sono nata a Modena, correva l’anno 1972, modenese da generazioni (e me ne vanto), ma ligure di adozione dal 2007. La mia Genova, un po’ matrigna. Ti respinge, ma poi ti ama… Ho sempre sognato di fare la scrittrice: ero convinta che quel mestiere mi avrebbe portato a scoprire il mondo. Reporter di viaggi e inviata stampa, per vent’anni, esclusivamente sulla carta stampata, tra premi letterari e il profumo di qualche libro a mia firma. E poi? Un balzo sul digitale, nell’anno bisestile e, dulcis, al tempo del Coronavirus. Amante viscerale degli animali, della natura, del mare, dell’avventura, del viaggiare al di là dei confini del mappamondo per raccontare i veri luoghi e la vera vita della gente del mondo. Appassionata di comunicazione, letteratura di viaggio, sociale, cronaca di vita, fotografia, musica e libri. E di racconti, di storie, di tante storie da raccontare…
In viaggio nel cuore dei colori d’autunno. Il foliage è il simbolo dell’autunno. Quando le foglie degli alberi cambiano colore e dal verde passano al rosso, giallo, marrone, creando tavolozze che sembrano uscite dall’atelier di un pittore. È uno dei momenti più affascinanti dell’anno per ammirare la natura, per passeggiare nei boschi o intorno a un lago, per fare il pieno di calore da portare con sé nei mesi invernali. Ma dove andare e con cosa per essere certi di trovare i più bei paesaggi dove godere del momento del foliage? Potere sperimentare questa esperienza a bordo del Treno del foliage che vi condurrà tra i boschi del Piemonte e della Svizzera. Un viaggio lento alla scoperta dei meravigliosi colori d’autunno.
In viaggio tra i colori d’autunno sul treno del Foliage
Il Treno del Foliageè un itinerario lungo 52 chilometri, dove potrete ammirare la meraviglia del foliage, lungo la storica ferrovia Vigezzina – Centovalli, una delle più belle d’Italia. Per gli amanti dei colori autunnali e non solo, sta per iniziare il periodo in cui è possibile ammirare la bellezza cromatica della nuova stagione. Il Foliage, una parola magica che rievoca quella sensazione di profumo di castagne, di legna che scoppiettano e di profumi settembrini. Il Foliage è quel famoso fenomeno per cui gli alberi iniziano a cambiare il colore delle foglie, il paesaggio muta offrendo colori che ricoprono tutte le sfumature della tavolozza di Madre Natura. Dunque, per vivere questa esperienza unica, potrete salire a bordo del caratteristico treno bianco e blu della Ferrovia Vigezzina-Centovalli che collega Domodossola a Locarno. Il percorso della storica linea, che congiunge Piemonte e Canton Ticino dal 1923, vi farà immergere in un paesaggio che sembrano quasi dipinto.
Treno del Foliage 2021: le località principali
Ponte Brolla: un quartiere del Comune di Locarno noto per il suo orrido e per le marmitte dei giganti;
Intragna: sede del Comune delle Centovalli, rappresenta un vivo tuffo nel passato;
Verdasio: nel Comune di Centovalli e posto a 700 metri d’altezza, su di un ripido pendio terrazzato;
Re: un paesino posto nella valle che da Domodossola conduce a Locarno, chiamata Valle Vigezzo e conosciuta anche come la “valle dei pittori”;
Camedo: è l’ultima frazione del comune delle Centovalli, stazione di confine della linea ferroviaria, in territorio svizzero;
Santa Maria Maggiore: è il centro più importante della Val Vigezzo, situata nell’apice settentrionale del Piemonte, tra il Canton Ticino (Svizzera) e il Lago Maggiore;
Druogno dà il benvenuto a chi arriva in Valle Vigezzo viaggiando da Domodossola.
Ferrovia Vigezzina-Centovalli
Tra fine settembre e novembre, l’escursione termica si fa più consistente tra il giorno e la notte provocando il cambiamento di colore delle foglie degli alberi. Sapevate che, in tutto il mondo, esistono dei siti che indicano quando è il momento giusto per ammirare l’incantato mondo del foliage nei colori e sapori autunnali? Il treno bianco e blu della ferrovia alpina attraverserà, in circa due ore, 83 ponti e 31 gallerie passando per vallate, boschi e borghi sospesi nel tempo. Basti pensare che i treni che collegano Domodossola, nell’alto Piemonte, a Locarno, sulla sponda elvetica del Lago Maggiore, vengono scelti ogni anno, tra ottobre e novembre, da migliaia di passeggeri: ammirare i paesaggi infiammati dalle sfumature autunnali è un’esperienza da non perdere. Il percorso, da Domodossola a Locarno, attraversa la Valle Vigezzo e le Centovalli, passa per il lago di Locarno e il Lago Maggiore e vi consentirà di visitare deliziosi borghi tra cui quello di Santa Maria Maggior, di Malesco, di Villette quello di Re che in questi mesi propongono numerosi appuntamenti culinari, feste e sagre.
Si parte
Il viaggio potrà iniziare da uno dei due capolinea: Domodossola il capolinea italiano che racchiude nel suo nucleo storico gioielli e perle nascoste, tra cui spiccano la splendida Piazza Mercato e i meravigliosi palazzi storici, o Locarno, capolinea svizzero adagiato sulla sponda ticinese del Lago Maggiorecon un centro storico che si snoda tra viuzze e piazze nella parte vecchia della città. Con l’acquisto del biglietto speciale, il viaggio può essere allungato a vostra discrezione e comprenderà una sosta per ogni tratta. Presentando il biglietto presso gli operatori convenzionati, potrete ottenere in omaggio prodotti tipici di quest’area e/o acquistare a prezzi speciali cioccolato, salumi e tomini artigianali, birre e vini locali, prodotti di pasticceria a km 0, mieli, confetture ed ottenere sconti su hotel, B&B e ristoranti.
Tappe del Foliage
Locarno: una soleggiata località turistica sulle rive del Lago Maggiore nella Svizzera italiana del Canton Ticino;
Intragna: un piccolo paese di antiche case e vie in pietra, è adagiato sul fianco della montagna. Un balcone baciato dal sole mattutino, affacciato sulla Valle Intrasca e sul torrente S. Giovanni che scorre impetuoso verso il lago Maggiore;
Verdasio: frazione di 20 abitanti del comune svizzero di Centovalli, nel Canton Ticino, posto a 700 metri d’altezza, su di un ripido pendio;
Domodossola, oggi come in passato, è fulcro di una terra di confine, crocevia di culture e di commerci, tra il Piemonte e la vicina Svizzera. E’ il cuore dell’Ossola più autentica, luogo ricco di spunti, al centro delle sette valli dell’Ossola;
Santa Maria Maggiore: è il centro più importante della Val Vigezzo, tra il Cantone Ticino (Svizzera) e il Lago Maggiore. Oggi, il borgo è un’affermata località turistica montana, riconosciuta come Bandiera arancione dal Touring Club italiano;
Santuario della Madonna del Sangue: è il Santuario del paesino di Re e rappresenta un vero e proprio centro devozionale della valle, meta di pellegrinaggi al suo maestoso santuario dedicato alla Madonna del Sangue. Il suo nome è dovuto ad un miracolo che, si dice, avvenne nel 1494;
Sacro Monte della Madonna del sangue;
Sacro Monte Calvario: dal 1990 fa parte del complesso dei siti considerati “Riserva Naturale Speciale” dalla Regione Piemonte.
Date e biglietti
Il Treno del Foliage 2021 sarà in funzione tra ottobre e il 15 novembre 2021. I biglietti sono acquistabili già a partire dal 13 settembre 2021 sul sito www.vigezzinacentovalli.com e presso la biglietteria di Locarno. La validità è di uno o due giorni e prevede un viaggio a/r sull’intera linea, con la possibilità di effettuare una sosta nel viaggio di andata ed una nel viaggio di ritorno, per poter visitare le più affascinanti località che costellano il percorso ferroviario.
I prezzi vanno dai 33 al 43 euro a seconda della classe di viaggio scelta, della prenotazione del posto e della destinazione. Date le previsioni di forte afflusso e le importanti limitazioni dovute alla Covid-19 è obbligatoria la prenotazione dei posti a sedere. Il biglietto include (per ogni passeggero adulto) un buono di 5 franchi svizzeri per ritirare un omaggio presso il piccolo mercatino di prodotti locali che si svolgerà tutti i giorni dalle 10:00 alle 17:00 presso la stazione ferroviaria di Locarno (in collaborazione con la Pro Centovalli). Le bancarelle in legno, dal tettuccio giallo, esporranno prodotti tipici del Locarnese e valli.
Poi l’estate svanisce e passa, e arriva ottobre. Si fiuta l’umidità, si sente una chiarezza insospettabile, un brivido nervoso, una veloce esaltazione, un senso di tristezza e di partenza. L’autunno è sempre stata una delle mie stagioni preferite. Il tempo in cui tutto esplode con la sua ultima bellezza, come se la natura si fosse risparmiata tutto l’anno per il gran finale. Le giornate estive si accorciano. E, come sempre, in questo periodo dell’anno, mi sento addosso lo sguardo del tempo.
Mi piace che tutti i colori sono giusti, e i rumori e i profumi, a rispettare un antico impegno…
Sono nata a Modena, correva l’anno 1972, modenese da generazioni (e me ne vanto), ma ligure di adozione dal 2007. La mia Genova, un po’ matrigna. Ti respinge, ma poi ti ama… Ho sempre sognato di fare la scrittrice: ero convinta che quel mestiere mi avrebbe portato a scoprire il mondo. Reporter di viaggi e inviata stampa, per vent’anni, esclusivamente sulla carta stampata, tra premi letterari e il profumo di qualche libro a mia firma. E poi? Un balzo sul digitale, nell’anno bisestile e, dulcis, al tempo del Coronavirus. Amante viscerale degli animali, della natura, del mare, dell’avventura, del viaggiare al di là dei confini del mappamondo per raccontare i veri luoghi e la vera vita della gente del mondo. Appassionata di comunicazione, letteratura di viaggio, sociale, cronaca di vita, fotografia, musica e libri. E di racconti, di storie, di tante storie da raccontare…
Trakai è arroccata su un’isoletta, sul lago Galvé, col suo castello che sembra sospeso nel tempo e regala un suggestivo scorcio sul mondo. Una costruzione medievale che vi suggerisco di visitare per vivere una giornata immersiva nella storia e nella cultura di questo Paese. Sì, perché, per me, il viaggio a Trakai rappresenta una passeggiata in un luogo fatato. E’ stato così la prima volta e, certamente, lo sarebbe ancora oggi. Non è lontana da Vilnius e, in qualche misura, la completa: la capitale stessa è assai tranquilla e discreta, poco rumorosa, poco caotica. Eppure città. E’ ormai divenuta una delle più amate mete turistiche lituane e si contende con le “rivali” Riga e Tallinn il primato di luogo più visitato dei Paesi Baltici. Trakai, invece, è una perla rara, un tesoro che si svela dopo un breve viaggio caratterizzato dal verde delle foreste e dal blu dell’acqua.
Trakai, il castello sul lago che sembra sospeso nel tempo
La cittadina, infatti, si specchia sulle rive del lago Galvè ed è celebre per il castello costruito su un isolotto. Sono numerosi i turisti che, qui, fanno tappa, ma una visita alla fortezza è d’obbligo. Racconta del glorioso passato del Granducato di Lituania, che nel Medioevo e fino al Cinquecento è stato spesso ago della bilancia in spinose questioni di geopolitica. Sembra un tempo remoto e una regione lontana, ma non stupitevi se, scorrendo la storia del fortilizio, ad un certo punto vi imbatterete nel nome di Bona Sforza. Chi era? Nata a Milano, fu data in sposa a Sigismondo I, divenendo così regina di Polonia e granduchessa di Lituania. Il suo governo regalò non poche sorprese alle terre baltiche (persino un presunto delitto). La costruzione iniziò per opera di Kestuitis, Granduca di Lituania, nel XIV secolo e fu terminato da Vitoldo nel 1409. Nel XVII secolo venne danneggiato gravemente a causa della guerra che si era scatenata tra la Lituania e Mosca.
Da questo momento in poi venne abbandonato a se stesso e, soltanto nel 1905, ripresero i lavori di ristrutturazione, che furono spesso interrotti a causa delle due guerre mondiali. Solo nel 1961 si riuscirono a concludere i restauri. Una famigliola di cigni solca il placido lago e fa sembrare tutto ancora più fiabesco. Il castello di Trakai sembra sospeso sull’acqua, antico e solenne. Si arriva da una lunga stradina che costeggia case e viuzze del borgo di Trakai, 27 chilometri dalla capitale lituana, quasi un sobborgo, anche se è una cittadina a sé stante.
Si scende davanti ad uno spiazzo panoramico a bordo lago: il castello emerge dalla vegetazione di fronte, come se su una sponda ci fosse la realtà e al di là ci fosse il mondo delle favole. Si attraversa un ponte in legno lungo 300 metri e un piccolo parco, con le barche tirate a riva, ed è subito come andare a ritroso nel tempo.
Il Castello di Trakai sul lago e la sua importanza storica
Il castello è la più frequentata attrazione della cittadina: ci si arriva dopo una particolare passeggiata su un ponte pedonale che si trova sull’acqua del lago e che collega Trakai all’isoletta su cui sorge l’imponente castello. Realizzato in mattoni rossi e con uno stile gotico-romanico-rinascimentale, è unico nel suo genere e durante i mesi più caldi e favorevoli, nei balconi e nelle arcate si tengono eventi molto famosi e attesi. Fu uno dei castelli più importanti del Granducato della Lituania ed ebbe un’importanza strategica durante guerre e assedi e venne utilizzato successivamente come prigione. Al suo interno si trova il museo storico che contiene le tracce della storia del castello, della città e della cultura lituana. Gli appassionati di storia medievale potranno prendere parte a rievocazioni storiche in un viaggio che vi porterà indietro nel tempo.
Si può visitare da marzo a settembre, dal martedì alla domenica. È inserito all’interno del Parco nazionale storico di Trakai, che è anche l’unico parco nazionale storico in Lituania e in tutta Europa, considerato come l‘unico posto che unisce una serie di preziosi punti di riferimento della tradizione e della storia locale come la leggendaria residenza dei governanti Lituani, i laghi e le rive pittoresche, il patrimonio dei Karaim e della vita aristocratica. È un posto da non perdere per i turisti locali, ma anche per gli ospiti stranieri. All’interno del parco sono presenti altri monumenti di origine storica: il vecchio castello della penisola, il palazzo Uzutrakis e la sinagoga caraita.
Se il tempo è soleggiato, non perdetevi un giro in barca sullo specchio d’acqua che circonda il castello. Dura meno di un’ora ed è davvero suggestivo. Le rive verdissime, il cielo azzurro, l’acqua pura, il silenzio placido, le poche e curate ville suggeriscono un senso di quiete che rinfranca lo spirito.
Non tutti sanno che…
C’è ancora un aspetto di Trakai che merita di essere scoperto, ed è quello meno noto al turismo: quello che c’è prima, ossia il villaggio vero e proprio. E’ vero che è poco appariscente, fatto com’è di case basse e semplici, colorate e di legno, che sembrano un po’ tutte uguali. Il punto però è proprio questo: non appaiono tutte uguali, lo sono! E lo si deve alla popolazione locale, la cui tradizione affonda nella notte dei tempi. A Trakai, infatti, vive una delle più grandi comunità caraite ancora presenti in Europa, ma non particolarmente numerosa, visto che di caraiti rimasti se ne contano circa 60. L’ultimo censimento, risalente al 1997, contava 257 caraiti presenti nell’intera Lituania.
La storia dei caraiti
E’ difficile spiegare in poche parole chi sono i caraiti. La loro storia è attestata nella lontana Babilonia sin dall’VIII sec. a.C. Di fatto, era una setta ebraica che riconosceva valore solo all’Antico Testamento, a discapito del Talmud e della tradizione rabbinica. Da Babilonia si spostarono verso la Turchia e da lì in Crimea, sino a giungere sulle coste del mar Baltico. Ciò detto, Questo per sommi capi perché in realtà gran parte dei dettagli che delineano la storia dei caraiti è avvolta nel mistero. Sta di fatto che a Trakai vivono ancora oggi portando avanti la loro antichissima tradizione. Parlano una lingua che è una commistione di ebraico e turco, professano la loro religione nell’antica kenesa (sinagoga) di legno, si tolgono le scarpe entrando nel tempio (evidente retaggio turco), costruiscono le loro dimore seguendo gli antichi principi.
E di sicuro le case caraite sono quelle che più rimangono impresse nella memoria. Hanno un solo piano con mansarda, sono di legno e colorate e, soprattutto, hanno tre finestre che guardano verso la strada. Perché sempre tre? Semplice: una per Dio, una per il principe e una per il padrone di casa. Anche la kanesa ha questa particolarità, che è un tratto distintivo della comunità. Qui, è possibile gustare alcune specialità gastronomiche, come i kybyns, fagottini ripieni con carne e verdure, e si può visitare il Museo etnografico caraita che illustra la loro storia. Un modo per tornare alla realtà dopo aver visitato Trakai e il suo castello da fiaba.
Leggende e dintorni…
Trakai è un viaggio nel passato, ma anche nella fantasia. Torrette, mura, ponti levatoi, tetti rossi: tutto sembra finto, non a caso il luogo viene usato spesso per ambientare film e fiction. All’interno, visitando il grande cortile e le sale adibite da museo, la sensazione di essere trasportati in una favola rimane e ci si aspetta che prima o poi appaiano una principessa e alcuni cavalieri.
Non potevano mancare le leggende in un luogo del genere. Si dice che il castello, unico nell’Europa Orientale ad essere stato costruito sull’acqua, sia stato realizzato a partire dalla metà del XIV secolo per assecondare i capricci di Birute, moglie del Gran Duca Kestutis. La dama, originaria dalla costa della Lituania, sentiva la mancanza della vicinanza del mare e così il duca decise di far erigere un nuovo castello nelle vicinanze della città proprio nel centro del lago Galvè. Un’altra leggenda, un po’ più macabra, dona un pizzico di brivido al castello: si narra che il lago che circonda la fortezza sull’isola principale, ogni primavera fosse riempito dalle teste dei nemici per permettere il disgelo delle sue acque.
Un tuffo nel passato
Miti a parte, Trakai fu la sede del Granducato fino alla metà del XVI secolo, quando questa fu spostata a Vilnius, ma rimase a lungo una delle residenze preferite dei nobili lituani. In stile gotico, il complesso circondato da solide mura difensive, comprendeva un palazzo e una torre residenziale, fu trasformato in prigione per la nobiltà e per i soldati nemici. Nel 1962, fu completamente ristrutturato e trasformato in un museo, dove sono raccolti molti reperti dell’epoca feudale, quadri, affreschi, armature medievali, e anche una collezione di oggetti preistorici scoperti nell’area del lago Galvé. Tra sale, gallerie, vetrate colorate, passaggi segreti e opere d’arte di grande valore si scopre la storia della Lituania e ci si cala in un’atmosfera perduta, di dame e cavalieri, di guerre e pace, di feudi e armate. Non a caso, sulle mura e nel cortile vengono organizzati tornei medievali, concerti e mercati di artigianato locale.
Come arrivare
Trakai si trova nella Contea di Vilnius, a circa 30 chilometri di distanza della capitale. Il modo più facile ed economico per raggiungere la cittadina (a meno che non disponiate di un’auto vostra) è sicuramente l’autobus. Le linee che effettuano la spola tra la Stazione Autobus di Vilnius e la Stazione Autobus di Trakai sono molto frequenti, il costo standard del biglietto è di 2 euro a tratta (il ticket viene acquistato direttamente sull’autobus) ed il tragitto dura circa 30-40 minuti. La Stazione Autobus di Trakai si trova a circa una trentina di minuti a piedi dal Castello. Esistono, però, delle navette che partono dalla stazione e fanno tappa nei principali luoghi turistici di Trakai. Altrimenti la soluzione più comoda, ed anche economica, è il taxi (il servizio viene effettuato da Bolt, dovete scaricare l’app e prenotare le corse, il pagamento può essere effettuato anche in contanti una volta terminato la corsa).
Cosa vedere a Trakai
Ripercorrendo il pontile verso la terraferma, si può ammirare la lussureggiante vegetazione sulle rive e l’acqua blu del lago, solcata da cigni, anatre e barche a vela. Passeggiare per le strade di questa cittadina vi farà rivivere un’atmosfera medievale: le strade sono interrotte spesso da laghi o grandi e bellissimi cortili, con delle caratteristiche casette in legno colorate. Una delle architetture religiose più belle è la Chiesa della Visitazione della Vergine, la Basilica di Trakai, che custodisce il dipinto della Madre di Dio, considerato miracoloso dai credenti, che vanno in visita per vederlo.
Le escursioni
Sulla riva del lago si possono noleggiare piccole imbarcazioni e pedalò, c’è qualche pescatore con la canna, e ci si può dedicare allo shopping tipico. Una serie di bancarelle e negozi offrono artigianato in ceramica, in feltro e in legno, lino e i gioielli nell’inevitabile ambra del Baltico. Non mancano, ovviamente, ristoranti e caffè, da cui ammirare il castello dall’altra parte del lago.
Il parco storico è meta di sportivi che durante l’estate si divertono con escursioni realizzate in bicicletta o a piedi nei sentieri predisposti. D’inverno, quando i laghi e il territorio diventano ghiacciati e ricoperti da una folta distesa di neve, si può attraversarlo con gli slittini o con il kick sledge, una particolare slitta che si può guidare come un monopattino.
Anche le escursioni in kayak sul lago Galvé sono molto gettonate: la primavera è il periodo migliore in cui intraprenderle, poiché il clima è meno rigido e ci saranno molte specie animali da osservare.
Passeggiare per le vie di Trakai è come fare un viaggio in un mondo incantato. Così semplice e cordiale, lontano dalla premura, curato e sincero. Nulla è fuori posto: un luogo magico, sospeso nel tempo e nello spazio.
I grandi viaggi hanno questo di meraviglioso, che il loro incanto comincia prima della partenza stessa. Si aprono gli atlanti, si sogna sulle carte. Si ripetono i nomi magnifici di città sconosciute. Delle partenze mi piace l’agitazione, il senso d’attesa, l’immaginazione che fantastica su mappe e atlanti, e l’anima che si incanta…
Sono nata a Modena, correva l’anno 1972, modenese da generazioni (e me ne vanto), ma ligure di adozione dal 2007. La mia Genova, un po’ matrigna. Ti respinge, ma poi ti ama… Ho sempre sognato di fare la scrittrice: ero convinta che quel mestiere mi avrebbe portato a scoprire il mondo. Reporter di viaggi e inviata stampa, per vent’anni, esclusivamente sulla carta stampata, tra premi letterari e il profumo di qualche libro a mia firma. E poi? Un balzo sul digitale, nell’anno bisestile e, dulcis, al tempo del Coronavirus. Amante viscerale degli animali, della natura, del mare, dell’avventura, del viaggiare al di là dei confini del mappamondo per raccontare i veri luoghi e la vera vita della gente del mondo. Appassionata di comunicazione, letteratura di viaggio, sociale, cronaca di vita, fotografia, musica e libri. E di racconti, di storie, di tante storie da raccontare…
Giethoorn è soprannominata la ‘Venezia del nord’, nonché la ‘Venezia verde’, complice la sua ricca e rigogliosa natura che riveste gran parte del territorio cittadino e, ovviamente per i suoi caratteristici di canali. Nel nord dei Paesi Bassi, a circa 120 chilometri da Amsterdam, c’è un piccolo villaggio che sembra uscito da una fiaba: il suo nome è Giethoorn, un posto abitato da poco più di 2.500 persone che vivono in idilliche villette circondate dai fiori e da tanti canali. Giethoorn, situato all’interno del parco nazionale Weerribben-Wieden, la più estesa palude torbosa dell’Europa nord-occidentale, è un villaggio incantato della provincia dell’Overijssel.
A Giethoorn, potete farvi un’idea precisa di come gli Olandesi gradiscano vivere con e sull’acqua. Immerso in un ambiente ricco di laghetti, canneti e boschi, sorge questo incantevole villaggio con le sue splendide fattorie dai tetti ricoperti di canne su piccoli isolotti di terreno torboso collegati tra loro da oltre 170 caratteristici ponticelli di legno.
Giethoorn, la storia e le origini del villaggio
Il romantico villaggio di Giethoorn è sorto come insediamento degli estrattori di torba, il combustile fossile con basso potere calorifico. Tale attività causò la formazione di stagni e laghi nell’ambiente circostante e la gente iniziò a costruire le case sugli isolotti tra un bacino e l’altro. Questi erano raggiungibili solo mediante ponticelli o con le tipiche barche di Giethoorn chiamate ‘punter’, strette imbarcazioni che vengono condotte dal ‘punteraar’ con l’ausilio di un lungo bastone di legno.
Giethoorn, oggi, è rimasta pressoché lo stesso. I ponti di legno sono ancora al loro posto ed è possibile navigare tra i canali con un ‘punter’, ma anche con una barca silenziosa o partecipando a un tour in battello. Durante il percorso in barca, della durata di una o due ore, si possono ammirare le magnifiche fattorie del XVIII e XIX secolo dall’acqua, passando sotto i ponticelli di legno.
Il parco Weerribben-Wieden
Il parco Weerribben-Wieden è un ambiente ricco di cultura formatosi a partire dal XIV secolo frutto dell’attività di estrazione della torba, ricco di laghi, stagni e canali che si alternano a torbiere, canneti e boschi magnifici. La torba essiccata era un ottimo combustibile che veniva estratta da apposite buche, chiamate ‘weren’. Successivamente, poi, veniva stesa ad essiccare su lunghe strisce di terra che formavano delle coste sul terreno, le cosiddette ‘ribben’. Così, diciamo, è nato questo paesaggio straordinario.
Giethoorn, una città senza strade?
Una città senza strade? Esiste in Olanda. Giethoorn è un posto in cui potete spostarvi unicamente con piccole barche o attraverso l’utilizzo delle classiche biciclette lungo le piste che costeggiano i canali. Questi ultimi di sviluppano in una rete lunga più di 6 chilometri solcati da oltre 50 ponticelli. Non è un caso, dunque, che tra le principali attrazioni che Giethoorn offre ai numerosi visitarori che la affollano gran parte dell’anno, vi siano i giri tra i canali. Uno scenario naturale e particolare, unico nel suo genere, che fa di Giethoorn un posto pittoresco e molto apprezzato dai turisti che fin qui arrivano per sfuggire alla mondanità e al caos della città.
Curiosità tra i canali di Giethoorn
Come a Venezia ci sono le classiche gondole, anche Giethoorn può vantare la sua imbarcazione tipica, per scoprire la bellezza di questa località olandese, comodamente seduti, pur a contatto con la natura: un vero patrimonio naturale e culturale dell’Olanda.
Con il passare dei tempi però, affianco al punter, una barca lungiforme adatta soprattutto nei passaggi tra i canali più stretti, è facile imbattersi nelle whisper boats, imbarcazioni moderne più grandi il cui nome deriva dal fatto che non emettono alcun suono perché il loro funzionamento è garantito dall’energia elettrica. Esperienza imperdibile, dunque, il giro dei canali (noleggio barca da €6,10).
Lo sapevate che?
Ogni anno, ad agosto, si tiene il Gondelvaart Festival, una competizione fra gondolieri che coinvolge tutto il villaggio e attira migliaia di turisti e curiosi. Immerso in un’atmosfera magica e fuori dal tempo, il borgo sembra costruito dagli Hobbit.
Come arrivare a Giethoorn
Posto ideale per trascorrere una bellissima gita in giornata o, addirittura, una settimana di vacanza e relax, Giethoorn è facilmente raggiungibile da Amsterdam attraverso:
Voli low cost: Amsterdam Schiphol è l’aeroporto di riferimento, raggiungibile in 2 ore di volo circa da Roma e Milano. Voli per Amsterdam a partire da €71,00;
In auto da Amsterdam: il villaggio dista 1 ora e 20 minuti da Amsterdam, che potete affittare anche all’aeroporto e percorrere per circa un’ora e mezza le autostrade A1 o A6. Nel paese è disponibile un ampio parcheggio gratuito distante appena 15 minuti a piedi dal centro (Ottieni indicazioni);
Con i mezzi da Amsterdam: raggiungere Steenwijk in treno (€20,00),con almeno un cambio, poi bus 70 fino a Dominee Hylkemaweg (da €4,00 a corsa; partenze ad ogni ora). La durata totale del viaggio varia fra le 2 e le 3 ore e mezza;
Tour organizzato: E’ particolarmente consigliato il tour giornaliero da Amsterdam, con prezzi a partire da €89,00 a persona.
Quando andare?
Il clima è oceanico: piove tutti i mesi dell’anno. La temperatura media annuale in Giethoorn è di 14° (media più alta di 22° in luglio e la più bassa di 5° in gennaio). In un anno cadono 368 mm di pioggia. tasso di umidità media dell’82%. Il periodo migliore per andare va da maggio a settembre, quando c’è una temperatura mite e piacevole e le precipitazioni sono scarse.
10 cose da vedere a Giethoorn e dintorni
Tour in barca: ovviamente è la principale attività, potete scegliere fra le tipiche imbarcazioni come i “punters” o in classici battelli;
Ponticelli in legno: divertitevi a contare tutti i celebri ponticelli di legno di Giethoorn. Quanti sono? Circa 176!;
Centro storico: piccolo gioiello raggiungibile solamente a piedi, in barca oppure in bici dove passeggiare fra le case tipiche, ammirando i tetti coperti di paglia e i fiori colorati sui balconi;
Museo ‘t Olde Maat Uus: fattoria ottocentesca, restaurata, oggi adibita a museo che custodisce, oggi, i documenti e reperti che raccontano la storia del villaggio;
Museo geologico De Oude Aarde: uno dei più famosi dei Paesi Bassi. Qui, troverete alcune collezioni meravigliose dedicate agli appassionati di mineralogia, geologia e pietre preziose;
Museo Gloria Maris: collezione che conduce ad un viaggio in fondo al mare, tra conchiglie e coralli di qualsiasi colore e tipologia;
Parco Weerribben-Wieden: per godere di un paesaggio unico e incantevole, caratterizzato da una flora acquatica e da diverse specie di animali, fra cui la lontra, la sterna nera, il cormorano e l’egrette;
Museo Kroller-Muller: aperto nel 1938, espone un’eccezionale collezione privata di oltre 11.000 opere, con un’importante sezione dedicata a Van Gogh;
Museo a cielo aperto Zuiderzeemuseum di Enkhuizen: con oltre 130 edifici tra case, negozi e laboratori autentici, illustra la storia e la cultura della regione;
Batavia Stad Fashion Outlet: una sorta di outlet allestito in quello che era un grazioso villaggio del Settecent con 150 negozi che vendono oltre 250 marchi di prestigio.
Quanto costa visitare Giethoorn?
Il modo più semplice ed economico per visitare la località è soggiornando ad Amsterdam e prenotando una visita organizzata giornaliera. Tuttavia, i pochi hotel presenti nella zona sono molto piccoli (media €75,00 a notte in bassa stagione), mentre sono molto più numerose le case vacanza, che generalmente offrono buon rapporto qualità/prezzo.
E mangiare? Giethoorn vanta un’ottima reputazione gastronomica. Offre, infatti, diversi ristoranti eccellenti dove mangiare. Il locale più prestigioso è il Lindenhofche vanta due stelle Michelin (menù degustazione €100,00), ma ovviamente si trovano soluzioni di livello più abbordabile. Per risparmiare e assaggiare tipicità località, magari per un pranzo frugale, vanno benissimo le bitterballen, polpettine di carne fritta da assaporare con la senape, le ottime frites e, per i palati più coraggiosi, la tradizionale aringa cruda.
Giethoorn. L’acqua dei canali che ti segue dovunque, lo scampanellio delle biciclette, l’odore di proibito e la sensazione di trovare, intorno a te, qualcosa che ti completa.
Giethoorn, così come Amsterdam stessa, è così. Città assolutamente fuori dagli schemi. Decisamente diverse da come te le puoi aspettare. O almeno, decisamente diverse da come io, personalmente, me l’aspettavo.
Sono nata a Modena, correva l’anno 1972, modenese da generazioni (e me ne vanto), ma ligure di adozione dal 2007. La mia Genova, un po’ matrigna. Ti respinge, ma poi ti ama… Ho sempre sognato di fare la scrittrice: ero convinta che quel mestiere mi avrebbe portato a scoprire il mondo. Reporter di viaggi e inviata stampa, per vent’anni, esclusivamente sulla carta stampata, tra premi letterari e il profumo di qualche libro a mia firma. E poi? Un balzo sul digitale, nell’anno bisestile e, dulcis, al tempo del Coronavirus. Amante viscerale degli animali, della natura, del mare, dell’avventura, del viaggiare al di là dei confini del mappamondo per raccontare i veri luoghi e la vera vita della gente del mondo. Appassionata di comunicazione, letteratura di viaggio, sociale, cronaca di vita, fotografia, musica e libri. E di racconti, di storie, di tante storie da raccontare…
Enchantè! Je suis Marc Peillon…Ma davvero la musica ha il potere di unire in un modo così unico e magico? C’è un detto latino che parla per tutti. “Vis unita fortior. – La forza unita è più forte”. Personalmente, la musica mi ha “cresciuta” così, a sentirmi unita con i miei “pezzi” sparsi, mi ha insegnato a farne un collante naturale. Non nei numeri, ma nell’unità sta la nostra grande forza. E, la musica, lo sa bene…
Dalla musica classica
Provengo da una formazione musicale classica, che mi ha accompagnato per anni e anni, per poi interrompersi bruscamente, ma questa è un’altra storia. Così che, dieci anni dopo e, per motivi di lavoro, è tornata – la classica – nella mia vita anche se, di fatto, non aveva mai traslocato, non dal cuore. Vivevo a Modena, dove sono nata e ho vissuto per 35 anni. Sono stati bei momenti e …”i migliori anni della mia vita”.
Al Jazz
In seguito, a Genova, la mia terra d’adozione, ho iniziato a frequentare l’ambiente cantautorale e jazzistico: davvero un altro mondo, più ruvido, più matrigno, meno romantico, diciamo. Spesso, ascoltavo i discorsi che nascevano tra i jazzisti e, con grande rammarico, perdevo, via via, un po’ di incanto, di poesia, di leggerezza perché tra una critica e l’altra verso quel jazzista o tal altro, a farne le spese era sempre e solo la musica. Sì, perché dei nomi te ne scordi, presto, ma le note e i colori della musica ti rimangono sotto pelle…
La musica è una macchina che alcuni usano per entrare in un altro mondo, altri per danzare, altri per trovare la pace e altri per sentire che sapore hanno le ferite.
L’incontro
Poi, succede che vengo invitata ad un concerto ad Ospedaletti, una piccola cittadina in provincia di Imperia, nell’estremo ponente ligure, disposta ad anfiteatro sulle pendici soprastanti l’insenatura. Ed è proprio l’Auditorium Comunale la cornice che mi accoglie per quella indimenticabile serata musicale. Lì, finalmente, respiro un’aria familiare, intima, che riconosco appartenermi, trovo un gruppo di musicisti, sì, ma anche amici fraterni, si parla, si raccontano storie – le loro -, si torna indietro nel tempo, ma unità, complicità e magia sovrastano la scena e mi lasciano quella sensazione di “tornare a casa”.
Je suis Marc Peillon, il potere della musica
Il gruppo è formato dal pianista Alessandro Collina, dal contrabbassista Marc Peillon e dal batterista Rodolfo Cervetto, ospite Philippe Petrucciani, uno dei maestri indiscussi della chitarra jazz e fratello del geniale Michel, pianista jazz tra i più apprezzati di tutti i tempi scomparso prematuramente. Un genio umano e sovrumano.
E come dimenticarsi di quell’incontro con Marc, un “ragazzo” così elegante, allegro e pieno di vita che si presenta così: “Enchantè! Je suis Marc Peillon…”. Di lui ricordo tutto, ma una cosa su tutte: quella “joie de vivre” che ti fa toccare il cielo con un dito. Prima della sua ‘ricca’ biografia, arrivava il suo sorriso disarmante, la gentilezza, l’allegria, l’eccentricità della sua vita a colori. Insomma, ad essere triste, con lui, c’era da vergognarsi. Eh già, non è così difficile riconoscere qualcosa di prezioso, quando lo incontri. Non brilla, riempie. La sensazione che mi rimandava lui era così tattile e netta. Lui sapeva, davvero, leggere oltre le righe, oltre le note, oltre i colori, lui non aveva bisogno di capire, di chiedere. No, lui sentiva con gli occhi, con il cuore, nel silenzio e con l’ascolto: erano i suoi principali strumenti da affiancare al contrabbasso. E, quando un musicista cerca questo “contatto profondo” nel pubblico, in chi lo ascolta, allora, arriva prima la persona che la sua arte. Lui ci riusciva.
Gli amici fotografi “dei 5 a.m.”
Con loro ci sono anche due fotografi, che percepisco, da subito, essere parte integrante di quella famiglia: Umberto Germinale, che lì era di casa, e Lello Carriere, sanremese ma, da anni, trasferito a Lanzarote. L’armonia e il divertimento sfociano in una bellissima serata piena di racconti e note. Quelle serate destinate, immediatamente, a lasciarti un segno e a non esser più dimenticate. Erano davvero – con loro – una sorta di “5 a.m.” in un tutt’uno che parla di amicizia, tra musica e immagini sempre evocative perché scattate, prima di tutto, con l’otturatore del cuore.
Mi colpisce moltissimo la fisicità ‘maschile’ con cui si abbracciano e che parla di un legame molto profondo, “antico” e ti rimbalza sensazioni forti, fortissime.
Te ne accorgi subito e l’attenzione si sposta su Marc che, con il suo modo di porsi, è decisamente un catalizzatore. Era l’estate del 2009. Nasce un amicizia meravigliosa che purtroppo si interrompe bruscamente con una violenta notizia, arrivata via messaggio, il 16 maggio 2020, in pieno lockdown…
Quella data si porta via tanta ricchezza umana, tanta vita e racconti di vite, sogni ancora da realizzare e … qualche promessa. Il trio “On air” cessa di esistere.
La cosa mi stupisce perché nel jazz solitamente c’è una grande rotazione, al di là dei rapporti di amicizia, ma Rodolfo (ndr, Rudy) e Alessandro (ndr, Ale) decidono di rendere l’ultimo omaggio ad una persona che era molto di più di un amico. Tra loro si era, immediatamente, instaurato un modo di viversi intenso, pelle su pelle, cuore-cuore e con una complicità eccezionale.
Esce così in rete un loro live del 2012 con book fotografico di Umberto Germinale, della Phocus Agency. Proprio il noto fotografo di Ospedaletti e amico fraterno nonché direttore artistico del festival “Jazz sotto le Stelle”.
C’erano una volta: 5 a.m.
Partiamo dall’inizio, facciamo un passo indietro, ai 5 a.m. Il nome del loro primo gruppo lo aveva scelto Marc: 5 perché erano in 5. E, ancora, 5 come le iniziali dei loro nomi: A per Andy e M per Mike. E, non solo, 5 a.m. come le cinque del mattino: “la sveglia che avevamo messo dopo un concerto”.
Ma per raccontare questo concerto, che è anche stato l’ultimo di questa formazione, bisogna andare ancora un po’ più indietro e coinvolgere, da vicino, Alessandro e Rudy che mi raccontano come nasce questa storia.
Ale incontra Marc a Nizza. Era il 1998 ma, nonostante la stima reciproca, non collaboreranno fino al 2008, per un concerto al Borgo Club, che li vede suonare tutti e tre insieme nello storico Jazz Club genovese di via Vernazza, che ha chiuso qualche anno fa.
Rudy, invece, incontra Alessandro nel 2000 e la loro collaborazione è, da subito, molto assidua ma, ancora una volta, l’incontro con Marc diventa determinante per maturare ancora. Insieme.
Il primo concerto
Il primo concerto è del 2008, ad Alassio, “Città degli Innamorati” e famosa per il suo Muretto, uno dei simboli della cittadina ligure, il cui concorso di bellezza nacque nel 1953 e continuò fino al 2014. Del resto, ad Alassio, nel Savonese, tutto parla d’amore. Basti pensare alle numerose opere d’arte presenti nella cittadina: gli Innamorati in bronzo di Eros Pellini, Les amoureux di Reymond Peynet, le Cicogne di acciaio di Umberto Mastroianni e i romantici Pesciolini che si baciano ideati da Mario Berrino, il promotore delle attività legate al Muretto. Insomma, la città degli innamorati a tutti gli effetti, con tanto di specialità tipica dal nome davvero lovely: i Baci di Alassio.
E, proprio in questa cornice così romantica, inizia la loro frequentazione. Suonano spesso insieme e nascono, di fatto, i 5 a.m. Il gruppo si completa di due musicisti americani: il trombettista jazz Andy Gravish e dal sax tenore Michael (ndr, Mike) Campagna, uno tra i più originali nuovi talenti nel jazz di oggi, che ha condiviso palcoscenici con una vasta gamma di musicisti leggendari come Charlie Haden, Maria Schneider, Bobby Short, The Toshiko Akiyoshi Big Band e The Duke Ellington Orchestra, ma l’elenco continua. Il sound del gruppo ricorda i gruppi hard bop degli anni ’60.
Il primo disco
Le composizioni sono tutte originali e nel 2009 registrano il primo disco. Dopo tanti anni insieme, e tanti tour, il gruppo è costretto a sciogliersi perché Andy, che per un certo periodo ha vissuto a Roma, torna a New York e Mike a Miami. E, come spesso succede, nel mondo dell’arte e della cultura, le spese per portare avanti il progetto diventano insostenibili e, nonostante il repertorio pronto per un nuovo disco, tutto sfuma. Ma resta una registrazione dell’ultimo concerto. Negli anni successivi, però, Marc, tenace e determinato com’è, proverà a convincere tutti a stampare il disco, ma invano. Resta un “sogno nel cassetto”. Il trio non si ferma, continua a “macinare” concerti, anche con altri artisti, ed è così che la collaborazione con il trombettista e compositore torinese Fabrizio Bosso porta ad un altro disco.
“Michel On Air” dedicato a Michel Petrucciani
Un altro disco, “Michel On Air”, dedicato a Michel Petrucciani. La musica vola alto e, ormai, il sodalizio a tre è consolidato, musicalmente, con una propria identità sonora tanto che l’etichetta Egea Records propone di accelerare la comunicazione in questa direzione. Nasce così il trio “On Air”, il disco ha un successo inaspettato, soprattutto in America.
Il trio On Air, che ha al suo attivo 4 cd prodotti da Egea, uno dei quali dedicato a Michel che nel 2014 raggiunge il 28esimo posto nella classifica jazz statunitense. Il linguaggio di Fabrizio Bosso va, così, ad incastrarsi alla perfezione nelle sonorità del trio permettendo alle quattro personalità di esprimersi in piena libertà e ascolto dell’altro dando vita ad un mondo sonoro in continuo movimento che passa da ambienti rarefatti ad una pulsazione tipica della black music.
Il successo ha dell’incredibile come i risultati perché l’etichetta è canadese, nel gruppo non ci sono musicisti americani e le musiche sono dei fratelli Petrucciani. Anche DownBeat, la rivista statunitense dedicata alla musica jazz, nata a Chicago nel 1935, recensisce il disco dando 4 stelle su 5. E, non è tutto, ci sarebbe anche l’opportunità di fare un tour negli States ma, per ragioni manageriali, questo sogno non si realizza.
Nel 2015, poi, si torna in studio di registrazione, lo Zerodieci Studio del musicista, produttore e fonico genovese Roberto Vigo. Questa volta il trio decide di rendere omaggio alle canzoni italiane famose in Francia e a quelle francesi famose in Italia. Ci vuole un suono graffiante e malinconico così la scelta cade su Max Ionata, uno dei maggiori sassofonisti italiani della scena jazz contemporanea che, in pochi anni, ha conquistato l’approvazione di critica e pubblico riscuotendo sempre grandi successi in Italia e all’estero.
Poi, le musiche di Monk
Il 2016 è la volta delle musiche di Thelonious Monk, pianista e compositore statunitense, un gigante indimenticato del jazz. Alessandro Collina, che ha suonato con Paul Jeffrey, ultimo sassofonista di Theloniouis, mi racconta che durante i loro tanti viaggi si parlava spesso di come il suono di un sax alto sarebbe stato perfetto per quei pezzi, sebbene Monk usasse sempre tenoristi. Ecco che si pensa a Mattia Cigalini, uno dei più affermati saxofonisti italiani, nonostante la giovane età. Una decisione felice, il disco funziona e il progetto andrà avanti con alcuni piccoli tour.
Dal 2017, il trio continua a lavorare insieme e registrano due dischi per il trombettista Marco Vezzoso. Nel 2018, prende l’avvio la collaborazione con Philippe Petrucciani (che già suonava con Rudy e Alessandro ) e si inizia a lavorare per un nuovo progetto, ma due implacabili tsunami ne interrompono la continuità: il fermo imposto dalla Covid-19 e la scomparsa di Marc.
C’è un prima e un dopo
Marc Peillon nasce a Nizza nel 1959, si diploma al Conservatorio nizzardo per poi insegnare basso e contrabbasso al Conservatorio di Antibes e ricoprire il ruolo di vice direttore di quello di Beaulieu sur Mer. Di rilievo il suo contributo nell’associazione “Pepita Musiques et Cultures“ come direttore artistico e ideatore dei festival “Saint Jazz Cap Ferrat”, “Cap Jazz” e più recentemente “Jazz Entrevoux” a Entrevaux con il supporto di Philippe Déjardin, suo braccio destro.
E un dopo…
Un malore improvviso e assassino, un ictus, se l’è portato via, di domenica, a soli 61 anni di età. La notizia fa eco, il mondo della musica jazz piange un grande personaggio, protagonista assoluto della scena jazzistica della Costa Azzurra e il suo ricordo è, ancora oggi, più vivo che mai.
Che ne sarà, dunque, di On air?
Né Rudy né Alessandro hanno più alcuna voglia di “andare avanti”, ma non per la mancanza di musicisti che possano sostituire Marc. No, no, semplicemente perché quello che non si può sostituire è il rapporto umano con-diviso in anni di viaggi in auto, sveglie, pernottamenti in hotel alle 5 del mattino, in aeroporti, in autogrill, di bevute, di scambi di opinioni, di nottate passate nella stessa camera “per ridurre le spese”, a confidarsi dei tanti problemi, ma tutto affrontato, sempre, insieme. Anche le vicende personali. Eh, sì, perché On Air era una famiglia. Ed è rimasta tale nel cuore. I ricordi sono tanti, alcuni dei quali me li raccontano, tra sorrisi e malinconia, soffocando in gola le lacrime, rendendomi partecipe privilegiata di tanta intimità e passione, in tutto e per tutto.
Ricordando Marc Peillon, un anno dopo…
“Di notte – racconta Alessandro – gli piaceva guidare, nonostante la stanchezza, che sembrava non avvertire mai. La notte la viveva in modo totalizzante. L’altra cosa geniale – di lui – durante i nostri tanti viaggi, guardando il cielo, le stelle, gli veniva l’ispirazione per tanti progetti. E mi costringeva a registrare tutto sul cellulare per non perdere la vena creativa e fissare l’attimo. Poi, il sorriso, le sue risate, la sua energia inesauribile: vissuti davvero irrepetibili”…
“Di Marc – ricorda Rudy – mi colpì, da subito, la sua diplomazia e la capacità di fare squadra, la voglia di superare le avversità senza mai alzare i toni. Anche la fantasia faceva parte delle sue caratteristiche principali, aveva sempre idee, forse anche troppe; infatti, beh, alle volte, sul palco si lasciava andare e, diciamocelo (ndr, sorride) Ale ed io faticavamo un sacco per “tenere in piedi la baracca”. Alla fine del concerto, gli facevamo notare le sue “licenze poetiche “, eppure “ci facevamo un sacco di risate”…
Ed io?
Il ricordo più intenso che ho – di Marc – è ad Ospedaletti, quando lo conobbi, su una panchina, al tramonto inoltrato aspettando l’inizio del concerto, a parlare di vita, di filosofia di vita, e del senso della vita, con quel suo sorriso capace, sempre, di convincerti, oltre ogni dubbio, con il mio debole francese parlato al quale lui rispondeva con un inglese italianizzato. Parlammo di musica, del ritmo della musica, di cercare lo stesso ritmo anche nella vita, nei legami che ci mettono più a nudo. Mi disse che lui non scindeva mai, ma viveva tutto “in musica”: ascoltava, leggeva e viveva al ritmo della musica. Gli piacque, da subito, leggermi, la mia scrittura, le recensioni musicali che scrivevo alla fine di ogni concerto. Poi, fissandomi dritto negli occhi, serissimo e fermo, alla penombra, come un cambio di scena destabilizzante, mi paralizzò con tanta ricchezza responsabilizzante: “Je lis au-delà des mots. Votre écriture est musicale, sonore et passionnée. N’arrêtez jamais de chercher ce rythme: pouvez-vous me le promettre?” Capivo bene il francese, sebbene lo parlassi peggio, e mi fu molto chiaro il messaggio, sebbene facesse ormai buio, ma gli occhi non avevamo bisogno di luce ‘esterna’: “Leggo oltre le parole. La tua scrittura è musicale, sonora e appassionata. Non smettere mai di ricercare quel ritmo: me lo prometti?”.
La promessa
E, allora, dopo un anno, ti dovevo una promessa “segreta”, Marc. Non ho smesso, mai, di cercare quel ritmo, l’ho perso, però, più di una volta, e mi succede spesso, ma riascoltando quell’ultimo concerto del 2012, che grazie ad Alessandro ho intercettato sui social, e rivendendo tanta e tale vita, gioia e amore in tutte queste foto nel rigoroso bianco e nero di Umberto Germinale, degli attimi di vita dei 5 a.m., ho voluto mantenere la mia promessa. Come? Raccontandovi un pezzo della sua storia, della loro storia, in punta di piedi e umilmente, perché lui è stato molte cose, molte musiche, tante vite. Un grande e carismatico comunicatore di suoni.
E…questo viaggio nel ricordo di chi è Marc, di chi era, non sarebbe stato possibile senza gli altri “pezzi” viventi di Marc Peillon: Alessandro Collina e Rodolfo Cervetto.
In Memory of Marc Peillon
Nei loro dischi c’è tanto di quella vita con-divisa e, un orecchio attento e occhi spalancanti all’incanto, sapranno sicuramente cogliere quella magia e quel sentire di “tante storie da raccontare”. E, allora, come è successo a me, “per caso”, vi consiglio di ri-ascoltare quel concerto Live at Saint Jazz Cap Ferrat del 12/08/2012, uscito all’indomani della scomparsa di Marc, il 17 maggio 2020, e capirete perché, come dicono Alessandro e Rudy, “anche questa volta Marc aveva ragione”.
È necessario unirsi, non per stare uniti, ma per fare qualcosa insieme.
Il silenzio
Marc è nel cuore e come diceva lui “si tu n’es pas silencieux tu ne peux écouter”. Il silenzio della notte, delle tanti notti insieme ai suoi compagni di “viaggi“, a mordere la vita, a raccontarsi le loro vite. Alle cinque del mattino, anno dopo anno, per quasi vent’anni. E, proprio nel silenzio, nella notte o, magari, alle 5 del mattino (?!…), ironia della sorte, Marc ci ha lasciati, improvvisamente, senza far rumore, per l’ultimo “coup de théâtre“…
I momenti più belli della vita sono quelli che, uniti insieme, formano un percorso.
Beh, Marc, non volevo mettermi fretta, però la parola data va mantenuta entro questa vita – come scherzammo sulla panchina -, ricordi?
Sono nata a Modena, correva l’anno 1972, modenese da generazioni (e me ne vanto), ma ligure di adozione dal 2007. La mia Genova, un po’ matrigna. Ti respinge, ma poi ti ama… Ho sempre sognato di fare la scrittrice: ero convinta che quel mestiere mi avrebbe portato a scoprire il mondo. Reporter di viaggi e inviata stampa, per vent’anni, esclusivamente sulla carta stampata, tra premi letterari e il profumo di qualche libro a mia firma. E poi? Un balzo sul digitale, nell’anno bisestile e, dulcis, al tempo del Coronavirus. Amante viscerale degli animali, della natura, del mare, dell’avventura, del viaggiare al di là dei confini del mappamondo per raccontare i veri luoghi e la vera vita della gente del mondo. Appassionata di comunicazione, letteratura di viaggio, sociale, cronaca di vita, fotografia, musica e libri. E di racconti, di storie, di tante storie da raccontare…
La festa della mamma ha un’origine molto antica, ma è sempre stata celebrata in maggio. Si celebrava già in epoca pagana, al tempo dei Greci e dei Romani, dove era legata al culto delle divinità femminili e della fertilità e segnava il rapido passaggio dal gelido e bianco inverno alla colorata e sudata estate.
Fin dall’antichità, infatti, le popolazioni politeiste erano solite celebrare giornate dedicate alle madri e alla fertilità in primavera. Sembra che i greci onorassero la dea Rea, sposa di Cronos e madre di Zeus, mentre gli antichi Romani consacravano le idi di marzo a Cibele, una divinità di origine frigia che incarnava la Madre Terra.
Dal Medioevo al fascismo
Nel Medioevo la figura materna continuò a essere associata a fertilità e abbondanza, una connessione che si mantenne anche nei secoli successivi. Durante il fascismo, ad esempio, venne scelta la data del 24 dicembre per premiare le madri “più prolifiche” nell’ambito della “Giornata nazionale della Madre e del Fanciullo”.
Da questi riti ai giorni nostri è passato molto tempo, ma lo spirito è sempre lo stesso. Quale? Celebrare la donna nella più grande espressione della sua femminilità: la maternità.
La prima festa nel mondo
La prima festa della mamma dell’epoca moderna di cui si abbia notizia è quella anglosassone. Nel Regno Unito nacque nel XVII secolo la “Mothering Sunday”, che coincideva con la quarta domenica di Quaresima: una giornata in cui ai ragazzi che vivevano lontano dalle proprie famiglie era concesso tornare a casa a omaggiare le proprie madri.
Così come la conosciamo e viviamo noi, fu proposta per la prima volta nel maggio 1870 negli Stati Uniti da una pacifista e femminista americana: la poetessa Julia Ward Howe che scrisse anche una poesia a tema.
L’istituzionalizzazione del “Mother’s Day” avvenne, però, negli Stati Uniti, quarant’anni dopo, grazie a due donne, madre e figlia: Ann e Anna Marie Jarvis. La prima, attivista durante la Guerra civile americana, fu l’ispiratrice della festa della mamma, la seconda ne è universalmente considerata la fondatrice.
Anna era profondamente legata alla madre tanto che, dopo la sua morte, tempestò di lettere ministri e alte cariche pubbliche affinché venisse istituita una festa per celebrare tutte le mamme del mondo. E, fu solo nel 1908, il 10 maggio, che Anna Marie Jarvis celebrò a Grafton, nel Massachussets, il primo “Mother’s Day”, scegliendo come simbolo il garofano bianco, fiore preferito dalla madre defunta. Perché bianco?
Curiosità
Alla celebrazione della festa fu associato anche un fiore simbolo: il garofano rosso per le madri in vita ed il garofano bianco per quelle che, invece, non c’erano più.
Ufficializzazione
Nel 1914 l’allora presidente degli Stati Uniti, Woodrow Wilson, rese l’evento una festa ufficiale, su delibera del Congresso, programmandola per la seconda domenica di maggio.
La ricorrenza si diffuse gradualmente in tutto il mondo (nel 1917 in Svizzera, nel 1919 in Norvegia e in Svezia, nel 1923 in Germania e nel 1924 in Austria), ma la stessa Jarvis si rammaricò della piega commerciale che, già allora, la celebrazione stava prendendo, dispiaciuta che nel mondo si pensasse più al profitto che al sentimento d’amore filiale.
In Italia
Nel nostro Paese la festa della mamma fu celebrata per la prima volta nel 1956 da Raul Zaccari, senatore e sindaco di Bordighera (Imperia) nel teatro cittadino Zeni. Un anno dopo, è la volta di don Otello Migliosi, un sacerdote del borgo di Tordibetto ad Assisi, che scelse un giorno del maggio 1957 per celebrare la madre nel suo valore religioso.
Il disegno di legge per istituire ufficialmente la festa, presentato al Senato nel 1958, suscitò un acceso dibattito, ma la celebrazione prese ugualmente piede in via informale, fino a essere fissata ogni anno per l’8 maggio. Poi, dal duemila, soprattutto per motivi commerciali, la ricorrenza divenne “mobile e ballerina” e fu spostata alla seconda domenica del mese, in modo da farla coincidere in un giorno festivo.
Quando si festeggia nel mondo?
La festa della mamma si celebra a maggio in molti Paesi sull’onda dell’esempio degli Stati Uniti. Ma ci sono altre parti del mondo in cui questa ricorrenza cade in diversi periodi dell’anno.
Il Regno Unito e l’Irlanda, che rispettano la tradizione del “Mothering Sunday” , festeggiano fra marzo e aprile, poi ci sono Paesi che celebrano le madri in concomitanza con la festa delle donne come la Bulgaria, la Romania e gli altri Stati balcanici.
Il primo giorno di primavera (21 marzo) è la data scelta, invece, in molti Paesi arabi, dal Marocco, all’Egitto e alla Siria. In Francia la festa cade nell’ultima domenica di maggio mentre in Russia si festeggia l’ultima di novembre. E in Thailandia si deve aspettare fino al 12 agosto, giorno del compleanno della regina in carica. In Norvegia la seconda domenica di febbraio ed in Argentina la seconda domenica di ottobre.
Lo sapevate che?
Curioso il caso della Spagna, dove la festa ha un significato popolare, ma non ufficiale: si è passati, negli anni ’60, dal celebrarla nel mese di maggio, come avviene a Cuba, per poi fissarla per l’8 dicembre (giorno dell’Immacolata Concezione), come succede a Panama. Il dualismo proseguì per anni, fino a che le autorità ecclesiastiche decisero per la prima domenica di maggio, il mese tradizionalmente consacrato alla Vergine Maria.
Sia chi ha la fortuna di avercela ancora – una mamma -, chi l’ha persa, sebbene solo fisicamente, chi non l’ha mai conosciuta. Magari, chi, in cuor suo, la sta cercando e…chi vorrebbe esserlo; insomma, la mamma è unica. E il nostro ombelico. Una mamma è colei che solleva il suo bambino e lo porta all’altezza dei suoi occhi.
Amore, pazienza, perdono, rifugio e presenza. In una parola: MAMMA.
Tanti auguri mamma, alla mia – posso farlo solo scrivendoglielo – e a tutte le madri del mondo. Sì, perché la maternità è il più grande privilegio della vita. Da lì, nasciamo. Da lì, esistiamo.
“Mamma”, la parola più bella sulle labbra dell’umanità. Per pronunciare la parola “mamma” la bocca bacia due volte…
Sono nata a Modena, correva l’anno 1972, modenese da generazioni (e me ne vanto), ma ligure di adozione dal 2007. La mia Genova, un po’ matrigna. Ti respinge, ma poi ti ama… Ho sempre sognato di fare la scrittrice: ero convinta che quel mestiere mi avrebbe portato a scoprire il mondo. Reporter di viaggi e inviata stampa, per vent’anni, esclusivamente sulla carta stampata, tra premi letterari e il profumo di qualche libro a mia firma. E poi? Un balzo sul digitale, nell’anno bisestile e, dulcis, al tempo del Coronavirus. Amante viscerale degli animali, della natura, del mare, dell’avventura, del viaggiare al di là dei confini del mappamondo per raccontare i veri luoghi e la vera vita della gente del mondo. Appassionata di comunicazione, letteratura di viaggio, sociale, cronaca di vita, fotografia, musica e libri. E di racconti, di storie, di tante storie da raccontare…
Giornata internazionale del Jazz 2021. La pandemia non ferma, neppure quest’anno, il secondo ancora nel segno della Covid-19, l’importante evento musicale internazionale.
Giornata internazionale del Jazz, “Non è solo musica…”
Si celebra oggi, 30 aprile, l’“International Jazz Day”, istituito nel 2011 dall’Unesco, seppure in modalità virtuale. Non si tratta soltanto della celebrazione del genere musicale, ma di una Giornata che ha lo scopo di “aumentare la consapevolezza delle virtù del jazz come strumento educativo e come forza di empatia, dialogo e cooperazione tra le persone”.
Come diceva la grande cantante statunitense, pianista, scrittrice e attivista per i diritti civili statunitense Nina Simone: ‘Il jazz non è solo musica, è un modo di vivere, è un modo di essere, un modo di pensare’”.
Un genere musicale che, fin dalla sua nascita e nel corso di decenni, si è fatto portavoce dei valori dell’uguaglianza e della lotta al razzismo.
Unesco crede nel jazz
“L’Unesco crede nel potere del Jazz come strumento per la pace, il dialogo e la comprensione reciproca – si legge sul sito. Molti governi, organizzazioni della società civile, istituzioni educative e privati cittadini attualmente impegnati nella promozione della musica jazz coglieranno l’opportunità di promuovere un maggiore apprezzamento non solo per la musica, ma anche per il contributo che può dare alla costruzione di società più inclusive”.
Inoltre, “il jazz abbatte le barriere e crea opportunità di comprensione e tolleranza reciproca; è un vettore di libertà di espressione. Ma non solo: riduce le tensioni tra individui, gruppi e comunità; incoraggia l’innovazione artistica, l’improvvisazione, nuove forme di espressione e l’inclusione delle forme musicali tradizionali in nuove forme; stimola il dialogo interculturale e responsabilizza i giovani delle società emarginate”.
Quest’anno se ne festeggia la decima edizione, contemporaneamente in centinaia di città in tutto il mondo. Il 30 di aprile rappresenta, da dieci anni, un momento importante per presentare, in tutto il mondo, progetti ed idee che si richiamano ad una delle maggiori forme di espressione artistica del Novecento, il jazz.
Promossa dal leggendario pianista, compositore, icona del jazz mondiale, Herbie Hancock e subito raccolta e sostenuta dall’Unesco, questa giornata ha avuto un immediato e notevole sviluppo. Ora viene celebrata in tutto il mondo con migliaia di iniziative.
L’Italia
Non solo connubio tra musica jazz e patrimonio UNESCO ma, oggi, alcune delle associazioni che fanno parte del network nazionale si faranno promotrici di importanti iniziative musicali e di formazione. L’Italia ha partecipato, da sempre, a questa giornata con diverse iniziative (concerti, incontri, momenti di sensibilizzazione) trovando l’immediata disponibilità degli operatori.
La città di Genova
L’evento internazionale si avvale di uno straordinario ambasciatore culturale come Herbie Hancock che ogni anno ha ringraziato la città di Genova per il prezioso apporto fornito all’appuntamento internazionale. E anche questa volta, nonostante le chiusure obbligate e le difficoltà, le principali realtà jazzistiche genovesi, e non solo, si sono impegnate per reinventarsi. Così è stato programmato un fitto calendario di appuntamenti. Tutti da vivere on line, per dimostrare ancora una volta che la musica è viva e continua ad emozionare ed appassionare.
Gli eventi dei Jazz Club e associazioni genovesi
Il Count Basie Jazz Club, il Louisiana Jazz Club, il Museo del Jazz e il Gezmatazvi accompagneranno per tutta la giornata del 30 aprile attraverso un itinerario jazz per le vie e le piazze di Genovae della Liguria. Sarà una giornata di parole, ricordi, immagini, storia e, soprattutto, di musica suonata e vissuta.
Si possono seguire gli eventi online, già in mattinata, quando verranno trasmessi contributi registrati, in presa diretta, nei luoghi più suggestivi della “Superba” per culminare, la sera, in una speciale diretta ricca di ospiti e di musica di qualità.
Verranno, inoltre, presentati video storici di concerti ospitati dal Louisiana Jazz Club dal 1986 al 2009 e contributi realizzati durante quest’anno di chiusura al pubblico dai due Jazz Club Genovesi in occasione delle rassegne musicali create per dare continuità ai progetti.
Sono nata a Modena, correva l’anno 1972, modenese da generazioni (e me ne vanto), ma ligure di adozione dal 2007. La mia Genova, un po’ matrigna. Ti respinge, ma poi ti ama… Ho sempre sognato di fare la scrittrice: ero convinta che quel mestiere mi avrebbe portato a scoprire il mondo. Reporter di viaggi e inviata stampa, per vent’anni, esclusivamente sulla carta stampata, tra premi letterari e il profumo di qualche libro a mia firma. E poi? Un balzo sul digitale, nell’anno bisestile e, dulcis, al tempo del Coronavirus. Amante viscerale degli animali, della natura, del mare, dell’avventura, del viaggiare al di là dei confini del mappamondo per raccontare i veri luoghi e la vera vita della gente del mondo. Appassionata di comunicazione, letteratura di viaggio, sociale, cronaca di vita, fotografia, musica e libri. E di racconti, di storie, di tante storie da raccontare…
Cinque Terre Walking Park, tra natura e sentieri. La Liguria, dominata a nord dalle Alpi Liguri e dall’Appennino Ligure, è una delle regioni più piccole d’Italia, famosa in tutto il mondo per le sue splendide Cinque Terre, ma custode di molti altri tesori.
Vi ritroverete davanti a panorami unici e mozzafiato, proverete incanto nelle strette strade dei cinque borghi e dalle loro case colorate, e sarete inebriati dal profumo del mare. Questo è ciò che vi aspetta lungo l’itinerario a piedi alla scoperta delle Cinque Terre, famose in tutto il mondo.
Cinque Terre Walking Park, i percorsi con guida
Un programma di percorsi escursionistici, accompagnati da una guida esperta, organizzati nel Parco nazionale – Area Marina Protetta Cinque Terrein Liguria, Patrimonio Mondiale dell’Umanità UNESCO. Ogni fine settimana di luglio appuntamento con visite guidate alla scoperta del paesaggio terrazzato e del patrimonio di biodiversità custodito nella ricca rete sentieristica del Parco, tra i servizi compresi nella Cinque Terre Card. Il paesaggio naturale della Liguria, e in particolare quello delle sue Cinque Terre, rappresenta il connubio perfetto per gli amanti della camminata in vetta che non vogliono rinunciare all’ampio panorama marino. Cinque Terre Walking Park, dunque, concilia queste passioni con le escursioni guidate. Ecco tutti i sentieri percorribili del Parco delle Cinque Terre http://mappe.parconazionale5terre.it/plus/index2.html.
Alla scoperta delle Cinque Terre e dei suoi sentieri
Riomaggiore
Il punto di partenza del nostro viaggio è Riomaggiore. Il primo dei cinque borghi è raggiungibile in treno da La Spezia in meno di dieci minuti e, da Genova, in un’ora e mezzo circa. La stazione è divisa dal centro città con un lungo tunnel, che troverete, a destra, all’uscita della stazione. Al bivio, potete proseguire dritto e scendere nel passaggio sotterraneo per arrivare alla banchina o girare a sinistra, raggiungendo così la strada principale della città. Il borgo colorato è piuttosto piccolo, ma così magico e affascinante, tra le sue caratteristiche viuzze, il Castello e la sua romantica e incantevole terrazza panoramica. Si battono le antiche vie di pellegrinaggio intorno al borgo.
Via dell’Amore
Ora, raggiungiamo la seconda tappa dell’itinerario, la strada più rapida, e più bella, la cosiddetta Via dell’Amore, il primo tratto del Sentiero Azzurro, il più famoso e romantico e seducente delle Cinque Terre. Il sentiero è lungo solamente 1 km e collega i borghi di Riomaggiore e Manarola attraverso una bellissima strada pedonale a picco sul mare. La via alternativa per raggiungere Manarola è il sentiero Via Beccara, leggermente più impegnativo che passa attraverso un colle, e richiede circa un’ora di tempo.
Il l tracciato corre lungo il mare con scogliere a picco, venne costruito a partire dall’anno 1920 quando si avviarono dei lavori di rifacimento delle gallerie sulla linea ferroviaria Genova – La Spezia e si rese necessario costruire un sentiero per depositare gli esplosivi a metà strada dei due borghi. Intorno al 1930 il sentiero, già meta di giovani innamorati, venne ultimato. Ancora oggi, è purtroppo chiuso a causa della frana dell’autunno del 2012. La riapertura è prevista per il 2023.
Manarola
Ed eccoci al secondo borgo delle Cinque Terre che permette di scoprire le caratteristiche del borgo dall’alto. Manarola di acqua, pietre e vigne. È considerato il più fotogenico dei cinque. Manarola è famosa per il suo presepe di luci che viene inaugurato ogni anno l’8 dicembre e chiude solitamente per la fine di gennaio, completamente ecosostenibile ed alimentato da energia solare: è il più grande al mondo. Ideatore dell’evento e costruttore del presepe è Mario Andreoli, un residente locale, che ogni anno posiziona più di 300 personaggi dell’Avvento a grandezza naturale, e circa 17 mila luci, su e giù tra i terrazzamenti della collina. Forte il legame di Vincenzo Cardarelli, uno dei più grandi poeti e prosatori italiani del ‘900, con la Liguria e con questo borgo. Alcuni versi toccanti della sua prosa “Liguria” sono scolpiti sulle mura del Cimitero di Manarola.
È la Liguria terra leggiadra. Il sasso ardente, l’argilla pulita, s’avvivano di pampini al sole. È gigante l’ulivo. A primavera appar dovunque la mimosa effimera. Ombra e sole s’alternano per quelle fondi valli che si celano al mare, per le vie lastricate che vanno in su, fra campi di rose, pozzi e terre spaccate, costeggiando poderi e vigne chiuse. In quell’arida terra il sole striscia sulle pietre come un serpe. Il mare in certi giorni è un giardino fiorito. Reca messaggi il vento. Venere torna a nascere ai soffi del maestrale. O chiese di Liguria, come navi disposte a esser varate! O aperti ai venti e all’onde liguri cimiteri! Una rosea tristezza vi colora quando di sera, simile ad un fiore che marcisce, la grande luce si va sfacendo e muore.
Per il palato
Se siete amanti del vino, qui una sosta è obbligatoria. ll vino di Manarola è uno dei più pregiati della Liguria, si chiama Sciacchetrà ed è prodotto solo in questa zona. Cercate la Cassola, la terrazza sul tetto delle case, dove a settembre le uve vengono lasciate appassire al sole. Il risultato è un vino passito, dolce e liquoroso, dal colore dorato e dai riflessi ambrati.
Per proseguire alla scoperta delle Cinque Terre, bisognerebbe percorrere il secondo tratto del Sentiero Azzurro che collega Manarola alla stazione di Corniglia. Il sentiero passa molto vicino al mare, è lungo 2 km e richiede meno di un’ora. Come alternativa alla via principale del Sentiero Azzurro, si deve raggiungere Volastra, un piccolo borgo, attraverso il sentiero n°6, da qui prendete la deviazione n°6d fino a Corniglia. In questo modo le due terre distano 4,5 chilometri.
L’itinerario, sempre con sfondo sulla costa ligure, porta a conoscere, appunto, Volastra e Groppo, frazioni del famoso borgo spezzino dove il tempo sembra essersi fermato: teleferiche, antichi ponti sui rigagnoli, sorgenti e vigne in terrazzamento sono il segno del rapporto idilliaco tra comunità locale e ambiente naturale. Un’escursione ad anello con arrivo e partenza da Manarola che, attraverso il punto di vista della verticalità, aiuta a scoprire di più il borgo. Una storia d’amore e di lavoro che la guida del Parco racconta passo dopo passo.
Corniglia
Arrivando alla stazione di Corniglia, vi aspetta la grande scalinata, di 382 scalini, chiamata Lardarina oppure, se vi sembra troppo faticoso, c’è un servizio bus che, in pochi minuti, vi porterà in centro. Corniglia è l’unico dei cinque a non essere direttamente sul mare, si trova infatti su un piccolo e ripido promontorio a 100m sul livello del mare. Il piccolo borgo è il meno contaminato dal turismo e offre una vista senza eguali. Le colline circostanti, come in tutto il territorio, sono coltivate a viti e ulivi ed è normale incontrare le donne che vanno e vengono con cesti con la frutta della terra sulla testa.
Un bosco brulicante di vita, un panorama mozzafiato e antichi muretti a secco ti accompagnano lungo tutto il sentiero per arrivare al magnifico borgo. Una camminata in mezzo alla natura e alla storia di un territorio che ha saputo fare della sua difficile conformazione il punto di forza: carrucole e percorsi tra la vegetazione creati dai “vecchi” contadini liguri ti aprono le porte di un paesaggio del tutto incontaminato a metà tra mare e monti, tra sentieri a picco sul mare, fitti boschi e vigneti carichi d’uva brillante.
La spiaggia solitaria
A poca distanza, collegata attraverso un tunnel (percorribile con una torcia), troverete la bellissima e solitaria spiaggia di Guvano, principalmente visitata da nudisti, con acque limpidissime e fondale imperdibile.
Proseguiamo, dunque, per il Sentiero Azzurro, il sentiero per Vernazza, di circa 3 km, e il primo tratto che non passa vicino al mare, attraverso una zona boschiva, attraversata da vigneti ed uliveti; si sale sino a raggiungere quota 208m per poi scendere nuovamente verso il borgo.
Vernazza
Dopo poco più di un’ora e mezzo, vi ritroverete a Vernazza, davanti a quello che sembrerà un quadro. Questo borgo è considerato dalla maggior parte dei turisti il più bello delle Cinque Terre. Nonostante la grande presenza turistica, la sua anima rimane quella di borgo marinaro. Le alte case-torri di tipo genovese sono raggruppate ad anfiteatro intorno ad una piccola insenatura; le sovrastano le mura difensive e la Torre del Castello. Vernazza è l’unico borgo delle Cinque Terre che ha un porto naturale. A Vernazza, anche, in cerca di testimonianze religiose e culturali: dal centro del paese si prosegue in direzione del Santuario di Nostra Signora di Reggio, per arrivare al Monte Santa Croce, in ambienti di quota che dialogano con quelli costieri, e godere, da lassù, di una natura pura e robusta.
Riprendiamo, per l’ultima volta, il Sentiero Azzurro, per un altro tratto non a ridosso del mare. Si attraversano i monti, si sale di quota e si apre una vista panoramica mozzafiato sul porto di Vernazza che merita i migliori scatti. Il sentiero è lungo poco più di 3 chilometri e impiegherete circa due ore a percorrerlo.
Monterosso
Eccoci, infine, all’ultima tappa dell’itinerario, quella più a Nord. Monterosso è la città più grande delle Cinque Terre e quindi la più visitata. Questo borgo tra caruggi, piccole barche, alberi di limone e colline è un piccolo gioiello italiano. Si divide tra città nuova e città vecchia e offre diverse spiagge, anche sabbiose. Si può tornare al punto di partenza del nostro itinerario, con il treno e, in circa 15 minuti, sarete di ritorno a Riomaggiore. Si cammina tra limonaie antiche e fioriture.
Un itinerario ad anello con partenza e arrivo al borgo, passando per la Valle del Morione, attraverso variegati ambienti naturalistici. Terra amata dal poeta Eugenio Montale, Premio Nobel per la Letteratura nel 1975, che a lungo visse – e frequentò – Monterosso. La sua poesia I limoni, dalla raccolta Ossi di seppia, ben descrive il territorio e il suo amore per esso.
Verticalità e visioni contadine nel trekking ad anello sui sentieri alti del borgo con guide esperte. Il legame secolare della comunità locale con una natura bella e, a tratti ostile.
Quando il mare è magia. Quando il mare è stupore.
La complessità della bellezza risiede qui, nelle Cinque Terre.
I luoghi hanno un’anima, sempre. Parla, racconta una storia di salino e di pietra, di gozzi a riva, di caruggi e porte dipinte di verde…
Sono nata a Modena, correva l’anno 1972, modenese da generazioni (e me ne vanto), ma ligure di adozione dal 2007. La mia Genova, un po’ matrigna. Ti respinge, ma poi ti ama… Ho sempre sognato di fare la scrittrice: ero convinta che quel mestiere mi avrebbe portato a scoprire il mondo. Reporter di viaggi e inviata stampa, per vent’anni, esclusivamente sulla carta stampata, tra premi letterari e il profumo di qualche libro a mia firma. E poi? Un balzo sul digitale, nell’anno bisestile e, dulcis, al tempo del Coronavirus. Amante viscerale degli animali, della natura, del mare, dell’avventura, del viaggiare al di là dei confini del mappamondo per raccontare i veri luoghi e la vera vita della gente del mondo. Appassionata di comunicazione, letteratura di viaggio, sociale, cronaca di vita, fotografia, musica e libri. E di racconti, di storie, di tante storie da raccontare…
Dal 2020 non si fa che con-vivere con la pesantezza sostenibile della Covid-19, assuefatti, abituati alla tragedia della pandemia, in termini di “conta” di casi attivi, ospedalizzati e morti e, non ultimo, in balia della costante percezione di una “guerra” sanitaria contro un “mostro” invisibile, ma così tangibile dentro e fuori le nostre case.
In questo contesto, rallenta, non di poco, la fotografia di un sentimento di armonia nazionale sulla tanto discussa campagna vaccinale. Si parla, non a caso, di “disunità vaccinale” delle regioni che racconta di un’Italia “indietro tutta” rispetto agli altri Paesi, a parità di dosi.
Una maratona al vaccino, tra favori, raccomandazioni e giochi di lobby che riescono a trasformare i diritti di tutti nel privilegio di chi rientra in una categoria che è riuscita ad imporsi su un’altra.
Le regioni e il (non) rispetto delle linee guida
Eh sì, perché a conti fatti, le scelte delle regioni erano state effettuate nel rispetto delle linee guida del ministro della Salute Roberto Speranza sulla base di una disponibilità di dosi che sono, poi, state disattese.
Quindi? Chi aveva un’istituzione a protezione o una categoria di “appartenenza” ha ottenuto il vaccino e le categorie più fragili, e gli anziani ultra vulnerabili, non tutelate da nessuno, invece, sono rimaste senza. Una verità che fa male, ma così reale.
Vaccinati sì e no
Una cosa è certa: in Italia oggi si muore di Covid-19 più di un mese fa, lo dicono i numeri, mentre le cifre della campagna vaccinale altrove è gestita in modo molto più efficace, in termini di contabilità dei decessi, puntando su una vera organizzazione. Germania, Francia e Spagna hanno saputo tutelare meglio i loro anziani grazie ai vaccini, e senza “criteri diseguali”: li hanno protetti ovunque allo stesso modo, dalle grandi città alle zone rurali, con il focus puntano sull’età e sulle rispettive priorità.
E in Italia? Beh, ogni regione ha agito “per conto proprio”, tra errori, incidenti, guasti informatici e corsie preferenziali per raccomandati e “potenti”. Siamo alle solite, a farne le spese i più deboli, quelli “fragili”, e lo dicono le statistiche. La campagna vaccinale è partita a febbraio e Francia, Germania e Spagna, pur nelle rispettive proporzioni, hanno al loro attivo un netto calo della mortalità da Covid-19.
Nel Belpaese, insomma, occhi sempre più puntati sulla curva epidemiologica che, a marzo, addirittura è tornata a salire. Ad aprile, poi, non è che il trend sia in discesa, anzi…
La media settimanale dei morti
La media settimanale dei morti è tornata a superare i 300-400 morti al giorno. Una gestione italiana fallimentare della campagna vaccini contro le rigidissime misure imposte dal governo di Angela Merkel – il cui lockdown proseguirà fino a metà aprile -, francese e spagnolo.
A Berlino e in Francia, già da metà febbraio, la popolazione ultraottantenni aveva ottenuto la prima dose al 20 per cento contro il 40 per centro dei vaccini somministrati in Italia…
Tutti sanitari e pazienti ‘fragili’, insomma, i vaccinati?
In Italia, alla fine, le regioni hanno “cambiato le carte”, rispetto alla “terna” di categorie prioritarie dettate dal decreto legge del governo Draghi (1.operatori sanitari e socio-sanitari, sia pubblici che privati, in prima linea, 2.residenti e personali delle Rsa e 3.persone in età avanzata). Così, hanno privilegiato centinaia di migliaia di dipendenti degli ospedali, non solo i sanitari, ma gli amministrativi (?!) che, si sa, non hanno alcun contatto con i malati.
Ecco che, dulcis, si sono aggiunti i professori universitari, gli insegnanti e un esercito di professionisti, dagli avvocati ai magistrati, senza distinguere tra quelli operativi, a rischio di contagio con i soggetti malati (ndr, come è avvenuto in Germania).
Questo perché le norme tedesche sono chiare e inequivocabili sulle categorie e sulle priorità per la vaccinazione mentre in Italia le regioni sono una babele di norme spesso così diverse tra loro da lasciare spazio a pericolose interpretazioni.
Gli ultra vulnerabili: eterni dimenticati
Chi sono gli ultra vulnerabili in sintesi? Sono persone alle quali “la natura ha tolto parte della loro salute, ma ciò è nella ‘natura’ delle cose della vita.
La non applicazione del piano vaccinale, però, non può toglierci anche la speranza alla salute” – come si racconta un 78 enne abbandonato a se stesso. Si tratta di centinaia di migliaia di anziani, “estremamente” vulnerabili, cittadini “normali” over 70 e 80 che, solo ad aprile, forse, non saranno più “eterni dimenticati”, in attesa di una chiamata che non arriva e, magari, riusciranno a ricevere la loro prima dose.
Tutta colpa, pare, della mancanza di una piattaforma digitale informata e aggiornata, per i medici di medicina generale e i loro assistiti, ma le risposte mancano, ancora, quando il vaccino “per e di tutti” è l’unica soluzione “salvezza”.
Raccontatemi le vostre esperienze, da qualsiasi parte vi troviate…
Sono nata a Modena, correva l’anno 1972, modenese da generazioni (e me ne vanto), ma ligure di adozione dal 2007. La mia Genova, un po’ matrigna. Ti respinge, ma poi ti ama… Ho sempre sognato di fare la scrittrice: ero convinta che quel mestiere mi avrebbe portato a scoprire il mondo. Reporter di viaggi e inviata stampa, per vent’anni, esclusivamente sulla carta stampata, tra premi letterari e il profumo di qualche libro a mia firma. E poi? Un balzo sul digitale, nell’anno bisestile e, dulcis, al tempo del Coronavirus. Amante viscerale degli animali, della natura, del mare, dell’avventura, del viaggiare al di là dei confini del mappamondo per raccontare i veri luoghi e la vera vita della gente del mondo. Appassionata di comunicazione, letteratura di viaggio, sociale, cronaca di vita, fotografia, musica e libri. E di racconti, di storie, di tante storie da raccontare…
Infodemia vs. Coronavirus: cos’è e cosa spaventa di più? Secondo l’Oms il problema generato dal Coronavirus è l’infodemia, neologismo che indica letteralmente “quell’abbondanza di informazioni, alcune accurate e altre no, che rendono difficile per le persone trovare fonti affidabili quando ne hanno bisogno”.
Da oltre un anno, al tempo della Covid-19, ovvero da febbraio 2020, lo certifica anche un’istituzione internazionale, e non una caso. C’è una sindrome che condiziona pesantemente la nostra mente, la nostra attenzione, la nostra capacità di comprensione, di elaborare le informazioni che riceviamo e di ricostituirle.
Infodemia vs. Coronavirus, le fonti qualificate
A febbraio scorso, all’alba dell’emergenza sanitaria da Coronavirus, l’allarme non pareva essere “solo” o “tanto” il Coronavirus, ma quello relativo all’approvvigionamento di informazioni, non necessariamente errate, ma che per eccesso e mancanza di accuratezza, rimandavano, anche, a significati distorti, poi i fatti di cronaca, al netto del bilancio di vite umane perse, hanno dato la misura della pandemia, e oggi?
Cosa ne pensa, ancora oggi, come allora, l’Oms? Per l’Organizzazione mondiale della Sanità a complicare la gestione dell’epidemia concorre la diffusione di fake news sul virus, sulla pericolosità e sui rimedi.
Infodemia e pandemia
Una pioggia incessante di notizie in cui si intersecano e si confondono verità e falsità, dicerie e conferme, ipotesi, congetture, opinioni personali assolutizzanti (…?!), assiomi, teoremi e chi più ne ha ne metta.
E…da chiunque si improvvisi virologo, scienziato, infettivologo o, peggio ancora, da chi quel ruolo, di fatto, lo ricopre, o dovrebbe… Senza contare, non ultimo, che gli organi di stampa non sono secondi a nessuno in termini di “infodemia” in relazione alla pandemia/e, appunto. L’allarme è stato lanciato dall’Oms e poi, in parallelo alla “strage umana, ci si è dovuti pre-occupare di rispondere a falsi miti e voci sul virus di Wuhan.
Ce li ricordiamo i casi di intolleranza nei confronti di cittadini cinesi in giro per il mondo, Italia compresa?
Tali e tante le fake news che sono circolate, allora come oggi, ma quali sono (state) le principali diventate anche più virali del virus? Quelle secondo cui esistano antibiotici o la vitamina C e cibi come l’aglio necessari alla cura del virus o che l’infezione si trasmetta attraverso lettere e pacchi postali provenienti dalla Cina.
Troppe fake news in giro, insomma, secondo gli esperti medici e…non solo.
Sono nata a Modena, correva l’anno 1972, modenese da generazioni (e me ne vanto), ma ligure di adozione dal 2007. La mia Genova, un po’ matrigna. Ti respinge, ma poi ti ama… Ho sempre sognato di fare la scrittrice: ero convinta che quel mestiere mi avrebbe portato a scoprire il mondo. Reporter di viaggi e inviata stampa, per vent’anni, esclusivamente sulla carta stampata, tra premi letterari e il profumo di qualche libro a mia firma. E poi? Un balzo sul digitale, nell’anno bisestile e, dulcis, al tempo del Coronavirus. Amante viscerale degli animali, della natura, del mare, dell’avventura, del viaggiare al di là dei confini del mappamondo per raccontare i veri luoghi e la vera vita della gente del mondo. Appassionata di comunicazione, letteratura di viaggio, sociale, cronaca di vita, fotografia, musica e libri. E di racconti, di storie, di tante storie da raccontare…
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