L’8 marzo: storia e significato

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L’8 marzo: storia e significato

L’8 marzo: storia e significato. Una data conosciuta in tutto il mondo per essere la festa della donna. In realtà parlare di festa è improprio: questa giornata è, infatti, dedicata al ricordo e alla riflessione sulle conquiste politiche, sociali, economiche del genere femminile, dunque è più corretto parlare di giornata internazionale della donna.

L’8 marzo, la storia della festa delle donne

La storia della festa delle donne risale ai primi del Novecento. Per molti anni l’origine dell’8 marzo si è fatta risalire a una tragedia accaduta nel 1908, che avrebbe avuto come protagoniste le operaie dell’industria tessile Cotton di New York, rimaste uccise da un incendio.

L’incendio del 1908 è stato però confuso con un altro incendio nella stessa città, avvenuto nel 1911, il 25 marzo, della Triangle Shirt Waist Company, e dove si registrarono 146 vittime (39 italiani), fra cui molte donne, che vi rimasero intrappolate, bruciando vive o lanciandosi dalla finestre dell’ottavo e nono piano dell’Asch Building, oggi sede del Dipartimento di scienze della New York University.

Chi erano le vittime? E quali furono le cause dell’incendio?

Le vittime dell’incendio erano per la maggior parte giovani immigrate che lavoravano 14 ore al giorno, 6 giorni a settimana, per una manciata di dollari. I proprietari, per timore che le “sartine” si allontanassero dal posto di lavoro, avevano dato ordine di chiudere a chiave le porte: quando scoppiò il rogo, l’Asch Building si trasformò in una trappola mortale.

Lo sapevate che?

I resti delle vittime non riconosciute furono sepolti nel cimitero di Evergreens, al confine tra Brooklyn e Queens. A distanza di un secolo, gli ultimi 6 ignoti, 5 donne e un uomo, sono stati identificati e rivelati nel 2011, nel centenario della tragedia, grazie alla tenacia del ricercatore Michael Hirsch.

Peccato però che, al processo, i proprietari della fabbrica, Max Blanck e Isaac Harris, non vennero dichiarati colpevoli di alcun reato e i lavoratori del settore tessile scesero in piazza per alcune settimane di fronte all’edificio, fino a quando la municipalità decise di adottare misure di sicurezza a tutela dei lavoratori.

L’origine della Festa è legata alla rivendicazione dei diritti delle donne

Tuttavia, i fatti che hanno realmente portato all’istituzione della festa della donna sono in realtà più legati alla rivendicazione dei diritti delle donne, tra i quali il diritto di voto (30 gennaio 1945).

Sì, possiamo dire che la Festa della donna ha origine dei movimenti femminili politici di rivendicazione dei diritti delle donne di inizio Novecento, in termini di conquiste sociali, economiche e politiche, di discriminazioni e delle violenze di cui le donne sono state, e sono ancora, oggetto in quasi tutto il mondo. Per alcuni anni la giornata delle donne è stata celebrata in giorni diversi nei vari Paesi del mondo.

A San Pietroburgo, l’8 marzo 1917, le donne manifestarono per chiedere la fine della guerra. In seguito, per ricordare questo evento, durante la Seconda conferenza internazionale delle donne comuniste che si svolse a Mosca nel 1921 fu stabilito che l’8 marzo diventasse la Giornata internazionale dell’operaia.

In questa tendenza si è inserita anche l’Italia nel 1922, che ha celebrato la sua prima Festa della Donna il 12 marzo dello stesso anno.

Il 1975 è stato definito dalle Nazioni Unite come l’Anno Internazionale delle Donne e dall8 marzo di quell’anno i movimenti femministi di tutto il mondo hanno manifestato per ricordare l’importanza dell’uguaglianza dei diritti tra uomini e donne.

Di chi fu l’idea di proporre come simbolo la mimosa?

Fu importante, per la Festa della Donna, la fondazione dell’Unione Donne Italiane, associazione femminile nata nel 1944. L’UDI, in particolare, era alla ricerca di un fiore che potesse contraddistinguere la Giornata. L’idea della mimosa fu proposta da Teresa Noce, Rita Montagnana e Teresa Mattei.

In moltissimi paesi, del resto, è tradizione regalare fiori alle donne l’8 marzo, ma la relazione tra i fiori di mimosa e la Festa della donna c’è solo in Italia.

L’8 marzo, oggi?

L’8 marzo, oggi, ha un po’ perso il suo valore iniziale. Mentre ci sono organizzazioni femminili che continuano a cercare di sensibilizzare l’opinione pubblica sui problemi di varia natura che riguardano il sesso femminile – come la violenza contro le donne e il divario salariale rispetto agli uomini – molte donne considerano questa giornata come l’occasione per uscire da sole con le amiche, lasciando mariti, compagni e figli a casa, e concedersi qualche “sfizio“, che magari in altre serate non sarebbe permesso, restrizioni covid permettendo…

Voi, come lo vivete, oggi, al tempo del Coronavirus e, più in generale, questo giorno “di festa”?

La strada da compiere è tutt’altro che conclusa e siamo ancora lontane dal constatare che le diseguaglianze sono state superate e i femminicidi in calo (anzi, rimangono costanti, crescendo quindi in percentuale rispetto al totale). Sì, perché sotto questa luce, il 2020 è stato un annus horriblis, anche per quanto riguarda i femminicidi, il peggiore in termini di percentuali dal 2000.

E, va detto, non basta un ramoscello di mimosa per dare la giusta importanza all’8 marzo, no?

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Baby boomers e nativi digitali: identikit di generazioni a confronto

Baby boomers e nativi digitali: identikit di generazioni a confronto. Chi sono? Lo sviluppo tecnologico improvviso e intenso degli ultimi anni ha portato le nuove generazioni a vivere una vita totalmente diversa rispetto ai propri genitori o a chi li ha preceduti.

Baby boomers e nativi digitali, i figli della generazione X

Dai Baby boomers (classe dal 1944 al 1964), che hanno dato vita alle rivoluzioni sociali ed economiche del dopo guerra e hanno vissuto un importante cambiamento culturale a cui si sono comunque adattati, alla Generazione X (nati dal 1965 al 1979), quelli che hanno vissuto la guerra fredda e l’avvento del personal computer, a quella Y o Millenials (nativi 1980 -1994), la generazione che ha vissuto in pieno l’avvento dei social e l’informazione veloce fino a quella Z o Post Millenials (dal 1995 al 2019), i figli della Generazione X e di internet: cresciuti solo con la tecnologia per la quale hanno un attaccamento smisurato.

Generazione Z: chi sono e quanti anni hanno?

Sono la prima generazione nativa digitale. È davvero così? La Gen Z può essere considerata davvero una generazione di nativi digitali? E, se sì, in che modo si riflette questo sulla quotidianità degli adolescenti? Se c’è un dato incontrovertibile è che la Generazione Z, originariamente chiamati Homeland Generation, è la prima nata dopo la nascita del web, cresciuti all’indomani dell’attacco dell’11 settembre alle Torri Gemelle e in un clima di paura e sfiducia.

Per la Gen Z, così, il vero rito di passaggio dall’infanzia all’adolescenza è rappresentato spesso dal possesso di uno smartphone o di un cellulare connesso a Internet: secondo una statistica del Pew Research Center, quasi tre quarti degli adolescenti di oggi ne ha uno, mentre appena il 12% di adolescenti non possiede un telefonino. Difficile pensare, allora, che qualsiasi azione quotidiana di questi giovanissimi non passi attraverso le tecnologie che si portano tutto il giorno “dietro”: la iGeneration, cioè, sarebbe la prima per cui la distinzione tra online e offline, tra vita reale e vita virtuale ha perso di senso e, ancora, la prima a vivere costantemente onlife.

Sono i nati tra il 1995 e il 2019, oggi hanno tra i 10 e i 25 anni, in Italia sono circa 8.8 milioni, di cui più di un milione nel mondo del lavoro. In maggioranza, sono i figli della X Generation (oggi, dai 40 ai 55 anni), non hanno mai conosciuto un mondo senza internet, smartphone o i-Pod

I nativi digitali: nascono nel 1985

Mark Prensky, scrittore statunitense che ha coniato la definizione di “nativi digitali“, indica il 1985 come l’anno della grande svolta, dal quale i nuovi nati rientrano di diritto nella categoria dei millennials.

Nel 1985 inizia la diffusione di massa dei personal computer dotati di interfaccia grafica e dei sistemi operativi Windows. E’ l’inizio dell’informatica come la conosciamo oggi, una disciplina che contribuirà al cambiamento della società e del modo di vivere delle generazioni successive, del loro rapporto con gli altri e dei loro valori.

Cosa significa millennials

Anche conosciuti come Generazione Y (che sta per Yes), col termine millennials s’identificano tutti coloro che hanno raggiunto l’età adulta nel 21esimo secolo. Per alcuni i millennials sono semplicemente la generazione successiva alla cosiddetta Generation X, mentre per altri sono considerabili come tali solo gli individui definiti come “Nativi Digitali”, ovvero nati in un mondo dove è già fortemente presente la tecnologia digitale.

È stato Neil Howe nel 2000 a scrivere il libro “Millennials Rising”: il loro nome millennial deriva dal fatto che le loro idee, qualità, attitudini e valori si sono formate nel periodo di tempo nel quale vivono, ossia questo millennio. Sono figli di questo millennio, ecco perché millennial.

La realtà (virtuale) dei millennials

La familiarità dei millennials nativi digitali con la tecnologia di ogni grado e livello ha contribuito a creare in loro una sorta di parallelismo integrato tra ciò che è reale e ciò che è virtuale. Ad esasperare questa simbiosi tra realtà e mondo virtuale hanno contribuito i social network, Facebook e Twitter in primis.

In più di un’occasione gli esperti si sono interrogati sui rischi che provenivano da questa dipendenza dei più piccoli da tecnologie e ambienti digitali e sugli effetti che questo stato di costante connessione potesse avere su felicità e soddisfazione percepite, se non addirittura sulla salute mentale degli adolescenti. I risultati sono stati diversi, non sempre in perfetto accordo, se non quando si trattava di mostrare appunto come per i giovanissimi della Gen Z fosse impossibile distinguere la propria vita online da quello che succedeva appena disconnessi.

Millennials o Generazione Y: chi sono

Ad oggi i millennials hanno un’età compresa tra i 25 e i 38 anni. Sono indipendenti, o almeno ci provano. La Generazione Y è cresciuta con la crisi economica degli anni 2000 ma crede, col duro lavoro, di poter raggiungere un’indipendenza economica, sono più responsabilideterminati, persino più parsimoniosi della generazione immediatamente precedente I millennials hanno bisogno di riconoscimento, di feedback, di una continua formazione e la ricerca di nuovi orizzonti del sapere, sono di mentalità aperta, cittadini del mondo, avventurosi, esperti nell’arte del “problem solving“, collaborativi, attenti alla politica più di quanto non si interessino i loro genitori e fortemente progressisti.

Covid vs nativi digitali digitali, generazione dopo generazione

E’ passato un anno. Eh, sì, alla fine dello scorso febbraio, appariivano i primi casi di Coronavirus a Milano. E, da allora, le piattaforme digitali, soprattutto col lockdown, sono diventate gli unici, o quasi, mezzi di comunicazione e di “avvicinamento” sociale, di partecipazione culturale, benché virtuale, in grado di alleggerire la situazione di grande sofferenza fisica, psicologica, sanitaria, economica, educativa e finanziaria collettiva che ha investito le nostre vite… Tanti e tali i risvolti psicologici legati alla pandemia che ci hanno spinti a creare, a partecipare, a cercare progetti di supporto e sostegno per qualsiasi fascia di età.

Baby boomers, X, Y e Z: insomma, generazioni a confronto dove, però, la diversità è un valore e un punto di partenza nel mondo che cambia, nel tempo che corre veloce “in rete” come nella realtà, di oggi…

 
 

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Il pass verde Covid “sarà una proposta legislativa”

Il pass verde Covid “sarà una proposta legislativa“. Di cosa si tratta? “Digital Green Pass”: è questo il nome del passaporto vaccinale, per il quale è arrivato il via libera dall’Ue.

L’idea di un “passaporto” digitale che potesse attestare l’immunità da Covid per garantire in sicurezza la libertà di circolazione era già stato al centro del Consiglio europeo, con la Cancelliera Angela Merkel favorevole allo studio del documento, così come anche Austria Grecia (che ha già siglato un accordo con Israele per garantire la mobilità dei cittadini immunizzati facendo così ripartire la stagione turistica). 

Il pass verde, soluzioni e obiettivi

Quindi non sarà un optional, ma avrà il valore di uno strumento legale sulla base dei Trattati per il libero movimento. La data prevista per l’introduzione del documento è il 17 marzo, quando la Commissione europea presenterà “un pacchetto” con il pass verde Covid “che si concentrerà sui viaggi e la revoca delle restrizioni, per una riapertura comune sicura”.

Così ha riferito il vicepresidente dell’Esecutivo comunitario, Margaritis Schinas, alla recente conferenza stampa al termine della videoconferenza dei ministri della Salute Ue. Una volta presentato ai leader, al vertice del 25 marzo, saranno fatti i passi per organizzare la mobilità vera e propria.

Quando entrerà in vigore?

 

Il portavoce della Commissione europea, Eric Mamer, ha dichiarato, a margine della conferenza stampa al termine del Consiglio dei ministri della Salute Ue, che l’obiettivo è che il pass sia in vigore tra tre mesi, o in estate, precisando che “il pass riguarderà lo spostamento tra una frontiera ed un’altra, ma non quanto potrà essere fatto col pass all’interno dello Stato membro”. 

A cosa servirà il “Digital Green Pass”?

Il “Digital Green Pass” fornirà una prova della vaccinazione per la persona in possesso del documento, i risultati dei test effettuati da coloro che ancora non si sono potuti sottoporre al vaccino Covid-19 ed eventuali informazioni sulla guarigione dal coronavirus, senza comportare discriminazioni tra chi ha effettuato la vaccinazione e chi no.

E il Regno Unito?

Per il Regno Unito questa del passaporto vaccinale resta sul tavolo solo come una possibilità da valutare e sarà oggetto di discussioni coordinate con l’Ue prima di qualunque decisione. 

Il ‘pass verde’ Covid consentirà, insomma, di tornare gradualmente a viaggiare, in libertà, in Europa e nel mondo, per lavoro o per turismo, garantendo la privacy dei cittadini.

 

 

 

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Donne e lavoro, il divario di genere al tempo della Covid: cosa è cambiato?

Donne e lavoro, il divario di genere al tempo della Covid: cosa è cambiato? Quali sono stati, e sono, gli effetti della crisi da Coronavirus? In Italia i divari di genere sul tasso di occupazione e di inattività sono tra i più ampi in Europa. Una situazione che rischia di aggravarsi nel tempo, a causa delle conseguenze economiche della crisi sanitaria in corso. 

Donne e lavoro, ai tempi del Covid

Eurostat ha pubblicato un report, a maggio 2020, sui progressi dell’Unione Europea verso i 17 obiettivi per lo sviluppo sostenibile stabiliti dalle Nazioni Unite. Tra questi l’uguaglianza di genere, ancora lontana da raggiungere in particolare nel mondo del lavoro, dove la situazione delle donne è ancora fortemente svantaggiata, come sottolineato nel report.

Qual è il ruolo delle donne nel mondo del lavoro? Le donne continuano ad avere più difficoltà degli uomini nella ricerca di un lavoro, elemento reso evidente dal divario occupazionale di genere, che si mantiene stabile negli anni invece di diminuire. 

Da cosa dipende, principalmente, la disparità di genere?

Una disparità dovuta in gran parte a un altro aspetto preoccupante che emerge dal report, cioè l’inattività femminile per motivi di cura. È alle donne che vengono principalmente affidate le responsabilità familiari, di cura dei figli o dei parenti anziani. Motivo che spesso le spinge a rimanere al di fuori del mercato del lavoro, confinate tra le mura domestiche ad assolvere ruoli “assistenziali” verso la famiglia.

Gli effetti della crisi da Covid-19?

Le condizioni lavorative delle donne, il mondo femminile, in sintesi, più fragile e persino più esposto alla recessione da Covid, sta peggiorando a seguito degli effetti dell’emergenza sanitaria. Da un lato, con la chiusura delle scuole, molte più donne che uomini hanno preso la scelta obbligata di rimanere a casa a curare i propri figli.

Dall’altro, i settori lavorativi a maggior presenza femminile sono stati i più colpiti dalle chiusure e dalle regole sul distanziamento sociale: la ristorazione, il turismo e la cultura, le attività commerciali.

Il tasso di occupazione delle donne è di 18 punti percentuali più basso di quello degli uomini, il lavoro part time riguarda il 73,2% le donne ed è involontario nel 60,4% dei casi. I redditi complessivi guadagnati dalle donne sul mercato del lavoro sono in media del 25% inferiori rispetto a quelli degli uomini.

Il divario occupazionale: motivazioni e  numeri

Stando all’ultimo Rapporto Caritas, le donne che hanno chiesto aiuto da maggio a settembre, subito dopo il lockdown, sono state il 54,4% contro il 50,5% del 2019. Una situazione delle donne, insomma, fortemente discriminata.

Il Recovery plan dell’allora governo Conte, il piano nazionale di ripresa e resilienza, approvato a gennaio 2021, allora, è una occasione da non perdere per cominciare ad aggredire le profonde diseguaglianze di genere che attraversano il nostro Paese, a partire dal mercato del lavoro, sebbene ancora in via di definizione.

Gli obiettivi del Recovery plan

All’Italia andranno 210 miliardi di euro, di cui 144,2 miliardi finanzieranno nuovi progetti mentre i restanti 65,7 miliardi sono destinati a progetti in essere. L’azione di rilancio del Paese tracciata dal Piano è guidata da obiettivi di policy e interventi congiunti ai tre assi strategici condivisi a livello europeo quali la digitalizzazione e innovazione, la transizione ecologica e l’inclusione sociale. 

E, più precisamente, tra i vari obiettivi mira al rafforzamento del ruolo della donna, al contrasto alle discriminazioni di genere. 

La ragione principale del divario occupazionale riguarda il peso del lavoro di cura dei figli, delle persone anziane non autosufficienti e delle persone con gravi disabilità, che grava sulle spalle delle donne e che è assolutamente sproporzionato fra i generi. Il 65% delle donne fra i 25 e i 49, con figli piccoli fino ai 5 anni, non sono disponibili a lavorare per motivi legati alla maternità e al lavoro di cura.

L’Italia è al terzo posto per divario occupazionale

Sono i paesi dell’Europa meridionale e orientale a superare la media europea sul divario occupazionale di genere (11,4). L’Italia è al terzo posto con 19,6 punti di differenza tra occupati uomini e donne, preceduta solo da Malta e Grecia, entrambe con 20 punti di divario.

Se è vero che le donne occupate in Italia sono aumentate nel corso di 10 anni, è altrettanto vero che, ad oggi, sono ancora poco più della metà (53,8%). Dall’altra parte gli uomini occupati sono lievemente diminuiti (-0,4%), ma costituiscono il 73,4% della popolazione maschile.

Sarà necessario continuare analizzare la situazione mese per mese, aspettandoci che le conseguenze della crisi da Covid-19 sul mondo del lavoro e sulla presenza delle donne al suo interno continueranno a farsi sentire nel corso del tempo

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Liguria da scoprire: sei spiagge “segrete”

Liguria da scoprire. Liguria segreta… L’estate 2020, nel segno della Covid-19, quella particolare estate, la prima, contraddistinta da distanziamento sociale, mascherina e comportamenti responsabili, è trascorsa, ma ha lasciato segni tangibili.

La Covid ha inevitabilmente stravolto la nostra quotidianità, andando ad intaccare anche le più piccole abitudini giornaliere che prima d’ora abbiamo dato sempre per scontate. La limitazione delle libertà personali sta indubbiamente cominciando a farsi sentire, dopo quasi un anno dall’inizio di tutto questo. Senza contare che, secondo il parere espresso dall’epidemiologo francese Didier Pittet, l’epidemia da Coronavirus non sarà sotto controllo prima dell’estate 2022.

Liguria da scoprire, calette e lidi nascosti

Con la settimana bianca definitivamente saltata e la primavera ormai alle porte, un italiano su due sta già pensando alle vacanze estive con grande desiderio, sperando che la bella stagione possa regalare un po’ di ossigeno e di libertà.

Si va sempre più alla ricerca di luoghi appartati e più difficili da raggiungere, lontani dalla folla. Calette nascostescogliere baciate dal vento con lidi raggiungibili solo dal mare e spiagge da conquistare attraverso sentieri a strapiombo sul mare.

La Liguria, in quanto a spiagge segrete, da Ponente a Levante, non scherza. Ci sono così tanti e tali luoghi dove sfuggire al caldo tra spiagge, laghetti per un bagno in spiaggette tranquille e isolate, in luoghi davvero paradisiaci.

Spiagge segrete da lasciarci il cuore, sì, proprio come le descrive Renato Zero…

Spiagge
immense ed assolate
spiagge già vissute
amate e poi perdute
in questa azzurrità
fra le conchiglie e il sale
tanta la gente che
ci ha già lasciato il cuore…

Alla scoperta delle sei spiagge

Spiaggia delle Calandre a Ventimiglia

Forse l’ultima spiaggia italiana, oppure la prima per chi proviene della Francia, la spiaggia delle Calandre a Ventimiglia è un tratto di battigia dorata circondata da una vegetazione selvaggia. È frequentata da una comunità di puristi del mare o di surfisti. La sua dimensione non è stabilita da nessuna parte, ma dipende dal maestrale. Un paradiso da salvare dalla speculazione.

Lido delle Sirene a Bergeggi

Di fronte all’isola di Bergeggi, il Lido delle Sirene è un vero angolo remoto. Per raggiungerlo bisogna scendere 187 scalini, accessibili anche per i bambini. Sassolini tendenti al nero impreziosiscono questa baia dal mare cristallino. Lo storico stabilimento Lido delle Sirene, che occupa una porzione della baia, garantisce tutti i servizi. Accanto, raggiungibile via mare o tramite una scaletta, la più segreta Punta Prodani, incantevole promontorio dai toni mediterranei. Lido delle Sirene è, a volte, soggetto alle mareggiate che lo rendono inaccessibile. In tal caso si può rimediare in una delle spiagge di Bergeggi.

Punta Crena (Varigotti)

La caletta di Punta Crena è un piccolo angolo segreto: si raggiunge in barca o con un sentiero molto impervio a strapiombo sul mare. Per molti è la spiaggia più bella della Liguria e tra le più belle d’Italia.

San Fruttuoso di Camogli con le sue calette

Un’antica abbazia medievale nei cui balconi si rilette il blu del mare. Una baia con attorno un verde straordinario. San Fruttuoso di Camogli è un sogno che si realizza. Due sono le vie per arrivarci, una semplice e una più difficile: o si percorre il lungo (ma con scorci bellissimi) sentiero da San Rocco di Camogli per Semaforo Nuovo, oppure vi si sbarca comodamente con i traghetti che partono frequenti da Camogli e Santa Margherita Ligure.

D’estate, la spiaggia di San Fruttuoso è piuttosto affollata. Ma si possono sempre scoprire le vicine calette, luoghi magici dove fare un bagno. Si possono raggiungere in barca o, per i più temerari, a nuoto.

Cala del Pozzale sull’isola Palmaria

Nel Golfo dei Poeti, davanti all’Isola del Tino, sul lato ovest della splendida Isola di Palmaria, c’è Cala del Pozzale, nota anche col nome di Spiaggia dei Gabbiani. Vi si accede con i vaporetti che partono da La Spezia e Portovenere. È una baia ciottolosa dalle pietre ben levigate, circondata da un scenario naturale, con scogliere bianche ricoperte di pinetine verdi sgargianti. Per informazioni visitare il sito Palmaria nel cuore – Cala del Pozzale.

Punta Corvo

La spiaggia più inaccessibile del levante ligure: a Punta Corvo si arriva con un ripido sentiero da Montemarcello. Si attraversano densi boschi di lecci e pinete finché, dopo aver imboccato una ripida discesa, si intravede il bagliore del mare e s’ascoltano le onde e la risacca. Non ci sono stabilimenti, sulla sabbia le orme dei gabbiani: la sensazione, una volta arrivati, è quella di essere un Robinson Crusoe, di aver scoperto qualcosa di nuovo. Tornare indietro è dura, non solo per il sentiero davvero ripido.

L’estate che verrà?

Zona rossa, arancione e gialla: avanti con le ‘regioni a colori’ finché non ci sarà l’impatto del vaccino, quindi verso settembre-ottobre? Di certo, l’estate che verrà sarà ancora all’insegna del mare italiano, del “mare nostrum”: la differenza di passo tra i vari paesi europei renderà, infatti, impossibili, se non complicati, gli spostamenti da e per l’estero ancora a lungo.

Pertanto,  presumibilmente, gli stabilimenti balneari trascorreranno la seconda estate consecutiva senza flussi di turisti stranieri, ma con un’elevata presenza di italiani che opteranno per le vacanze di prossimità, frequentando mete vicine però…cambiando, cercando, per scoprire spiagge nuove e segrete e, diciamo, andando decisamente controcorrente rispetto al leitmotiv di “Stessa spiaggia, stesso mare” della grande cantante italiana Mina…

Per quest’anno non cambiare
Stessa spiaggia, stesso mare
Torna ancora quest’estate
Torna ancora quest’estate insieme a me

E come l’anno scorso
Sul mare col pattino
Vedremo gli ombrelloni lontano, lontano
Nessuno ci vedrà, vedrà, vedrà

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Paghetta sì o no? Che fine ha fatto nel tempo?

Paghetta sì o no? Che fine ha fatto nel tempo? Si fa presto a dire “paghetta”’. C’era una volta “la paghetta”: ve la ricordate? Un tema tanto dibattuto in molte famiglie: sono numerosi i genitori che si interrogano sull’opportunità di dare qualche soldino ai propri figli, sull’età in cui sia sensato iniziare ad elargirla e sui metodi più adatti per insegnare loro come gestirla con intelligenza.

Paghetta sì o no? i dubbi dei genitori

Quanti sono i genitori che versano ancora ai propri figli una paghetta? E poi quanto danno loro? E ogni quanto tempo? E per fare cosa? Che significato aveva e ha, se ce l’ha ancora? Come sono cambiate le abitudini? Insomma, paghetta sì  no?

Dal “Mamma, papà, me lo compri? alla “paghetta” e al “dopo paghetta” qual è stata l’evoluzione? Come lo hanno vissuto i genitori e trasferito, a loro volta, ai propri figli? Uno strumento di punizione (“ti tolgo la paghetta”) o l’occasione “sana” per insegnare ai figli la responsabilità al risparmio e l’autonomia più adulta oltre al valore di ciò che si desidera comprare (“metti da parte per …”)?

 I figli delle famiglie italiane

Che l’alfabetizzazione finanziaria dei ragazzi possa partire efficacemente partire dal gioco prima e dall’erogazione di cifre, anche modeste, è opinione molto condivisa. Certo, per molti è prioritario arrivare a fine mese con le risorse a disposizione e, difficilmente, una famiglia media riesce a risparmiare qualcosa. C’è da dire che i figli delle famiglie italiane sono quelli con le mani più bucate ricevendo più soldi dei loro coetanei europei (siamo battuti solo dall’Austria). Ma gli italiani, si sa, hanno nel proprio retroterra culturale l’attitudine al risparmio, per le necessità e per tutti i “non si sa mai…” legati ai rischi da affrontare e a tutte le eventualità future.

L’uso educativo del risparmio, in altre parole, non è sconosciuto ai risparmiatori di casa nostra. Ma il come è il punto più delicato. Da un lato c’è la spinta a spendere, e non di risparmiare, di contribuire cioè alla crescita economica al consumismo. E così, sul fronte educativo, i comportamenti prevalenti oggi sono questi: se il bambino vuole qualcosa facciamo in modo che (se) lo comperi, se il ragazzo esce la sera deve avere una certa quota di soldi, a prescindere da tutti i sacrifici che, poi, i genitori fanno per assicurarla.

Un soldino per crescere

Allora, è preferibile un fisso settimanale al “genitore bancomat”. I bambini cominciano ad acquisire una capacità di riconoscimento dei soldi attorno al sesto, settimo anno di vita; in un’età in cui le competenze mentali necessarie sono ancora precarie e confuse relativamente a pensieri magici e concretistici. Solo intorno ai 10-11 anni, con l’ingresso della scuola secondaria, i ragazzini e le ragazzine sono in grado di capire il senso del denaro. Consegnare una paghetta settimanale o mensile è, allora, decisamente meglio del genitore bancomat.

Con che cadenza e soprattutto con quale cifra è consigliabile iniziare?

Secondo il parere degli esperti, per i bambini delle scuole secondarie, 11-12 anni, 5-8 euro, a cadenza settimanale, possono essere sufficienti. Per i ragazzi più grandi e, con la prima superiore, intorno ai 14-16 anni, si può passare ai 15-20 euro, su base mensile, alzando il tiro man mano si presentano i primi allontanamenti organizzati con gli amici, le prime vacanze di gruppo.

Anche perché la paghetta, deve servire anche per la ricarica telefonica, per tutti gli acquisti “extra” dei figli, di ieri e di oggi, specie nell’anno della pandemia: dalle merendine alle figurine e ai giornalini all’uscita al cinema con gli amici più grandi.

Si fa presto a dire “paghetta”’

Poi, come non ricordare, c’era la paghetta condizionata o incrementata in virtù  di alcuni servizi che il figlio poteva compiere dentro casa, eccetto le attività domestiche che dovevano rientrare nella routine e nella condivisione dei compiti (rifare il letto, sparecchiare la tavola etc.), e non potevano o dovevano, allora come oggi, tradursi in un riconoscimento economico sennò il rischio di equivocare l’insegnamento educativo era ed è fortissimo.

Cosa è rimasto di tutte queste gocce di memoria oggi, e al tempo dell’emergenza sanitaria per COVID-19, dove tutto si è ribaltato quanto a ritmi, abitudini, esigenze e consumi, viaggi e cultura di viaggio?

Mi raccontate la vostra esperienza di genitori, ieri e oggi? Sì, perché “del doman non v’è certezza”: il Magnifico docet.

Scrivetemi a: email@milenasala.it

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In arrivo test veloce varianti, cresce incidenza

In arrivo test veloce varianti, cresce incidenza delle varianti sulle infezioni nazionali di Covid-19. In alcune regioni avrebbe raggiunto circa il 50% (rispetto al dato rilevato dall‘Iss del 18% circa di 10 giorni fa) con una prospettiva di crescita molto alta.

Test veloce varianti, tutte le novità

“La variante inglese, ha spiegato il presidente del Consiglio Superiore di Sanità, Franco Locatelli, è destinata a diventare dominante”. Inoltre: “Da metà marzo un test veloce potrà essere utilizzato nei laboratori per verificare, sulle persone già individuate come positive alla Covid-19, se sono state contagiate da una delle tre variante più in circolazione: quella inglese, la brasiliana e la sudafricana” – ha spiegato Massimo Ciccozzi, l’epidemiologo molecolare dell’Università Campus Biomedico di Roma, uno degli istituti che lo riceverà.

Di cosa si tratta?

Si tratta – ha aggiunto Ciccozzi – di un test molecolare sul genoma cui cui sarà possibile individuare in 2 ore circa se una persona è colpita da una variante. Sulla base del risultato ottenuto poi il campione deve essere sequenziato per capire quale variante sia. In questo modo si potrà avere la prevalenza delle varianti che circolano”.

Le varianti sono riferibili a casi di persone reduci da viaggi

Sulla situazione nel nostro paese – come ha  sottolineato Ciccozzi – tutte le varianti sono riferibili a casi di persone che avevano viaggiato. Al momento, comunque manca in Italia un sistema strutturato per andare a vedere come il virus cambia.

Nelle Regioni dove si è registrato un rapido aumento dei casi come Abruzzo, Marche, Toscana e Umbria, oltre che nelle Province autonome di Trento e Bolzano, le varianti di Sars-Cov-2 sarebbero, secondo le simulazioni sull’andamento dei ricoverati, già tra il 40 e il 50% del totale dei positivi. E questo trend, purtroppo, è in aumento…

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Anche i bambini soffrono della sindrome del «Long Covid»

Anche i bambini soffrono della sindrome del «Long Covid». Eh, sì, anche i bambini e i ragazzi che si ammalano di Covid-19 possono non recuperare del tutto e continuare a soffrire di uno o più disturbi per mesi, dopo la fase acuta. Possono, cioè, soffrire di quella che viene chiamata sindrome del Long Covid, presente in un malato adulto su dieci. 

Sindrome del «Long Covid», gli studi

Le conseguenze del contagio non passano in fretta: il Long Covid, ovvero i sintomi di malattia che continuano per diverso tempo anche dopo la fine dell’infezione virale, colpisce anche i più piccoli e i giovanissimi. Circa uno su 3 a distanza di mesi dalla fase acuta della malattia, sembra avere ancora almeno un sintomo, dal mal di testa all’insonnia.

Gli effetti della Covid-19: lo studio

A dimostrare che gli effetti della Covid possono permanere a lungo anche nei bambini e, probabilmente, con frequenza maggior che nell’adulto, è uno studio condotto dal Dipartimento della Salute della Donna e del Bambino della Fondazione Policlinico Gemelli Irccs, pubblicato in preprint  (in attesa di revisione) su MedRxiv e sottomesso alla rivista Acta Pediatrica ai pediatri del Policlinico.

Primo del suo genere, lo studio, ha preso in esame uno scaglione di 129 bambini e ragazzi tra 5 e 18 anni con diagnosi di Covid-19 e valutati in pronto soccorso, reparto o in ambulatorio durante la prima e la seconda ondata pandemica. La maggior parte aveva sintomi lievi al momento della diagnosi e 33 erano asintomatici.

Un terzo del campione iniziale ha riportato sintomi, più o meno evidenti, a distanza di mesi e i più frequenti erano dolori muscolari o articolari, cefalea, disturbi del sonno, dolore toracico o sensazione di costrizione toracica, palpitazioni. In particolare, 68 bambini sono stati valutati anche a distanza di 120 giorni e il 51% di questi riportava almeno un sintomo persistente, in molti casi con ripercussioni nelle attività quotidiane. Rivalutati a 160 giorni, il numero di chi riportava un sintomo era sceso al 36%.

Quali sono i pericoli per la salute infantile?

In generale, i virus appartenenti alla famiglia dei coronavirus sono responsabili di circa 1/5 delle polmoniti virali, e la polmonite è tuttora la prima causa diretta di mortalità infantile a livello globale, con circa 800.000 decessi annui tra i bambini di età compresa tra 0 e 5 anni (153.000 tra neonati di età inferiore a un mese), pari a un decesso ogni 39 secondi.
La polmonite è una malattia killer dell’infanzia perché i bambini, insieme agli anziani e ai malati cronici, sono i soggetti più vulnerabili alle infezioni respiratorie acute. A essere a rischio sono soprattutto i neonati e i bambini sotto i 2 anni di età, a causa della fisiologica immaturità del sistema immunitario. I bambini immunodepressi sono esposti a un rischio particolarmente elevato.

Tuttavia, nell’epidemia di Covid-19 in corso si rileva un numero di infezioni tra i bambini e i ragazzi di gran lunga inferiore rispetto a quanto avviene in altri contesti epidemici. L’età media dei contagi nel nostro paese è di 62 anni, mentre l’età media dei decessi è 79 anni.

Bambini e Covid-19: l’impatto sul benessere e altri aspetti di salute

Ma cos’è esattamente la paura e perché la proviamo? Come riuscire a sconfiggere questo senso di impotenza e di ansia e tornare a condurre una vita normale? Non sappiamo ancora quando potremo tornare alla normalità e, neppure, se davvero potrà tornare tutto come prima.

Una limitata dose di paura e allerta sono necessarie, anzi fondamentali, a ben pensarci, in questa situazione per potersi attivare, senza perdere lucidità, anche solo per osservare le regole idonee di protezione come usare la mascherina, lavarsi bene e spesso le mani, rispettare la distanza sociale.

Come potrebbero affrontare i bambini delle modifiche delle nostre abitudini come, per esempio, l’utilizzo della mascherina prolungata nel tempo? Sicuramente i bambini possono adattarsi a delle norme, quindi alle norme di igiene e di prevenzione: anche alla mascherina. Se dovesse diventare una normalità per tutti, adulti e amici, diventerebbe una normalità anche per loro.

Ovvio, però, che una cosa del genere genererebbe una percezione del rischio maggiore: c’è un messaggio che viene veicolato di “pericolosità” nei rapporti umani. L’attenzione, quindi, dovrebbe correre sul trovare il giusto equilibrio tra la norma che tutela la nostra salute e la necessità di non esagerare nel veicolare troppo il messaggio di pericolosità, figlio della paura, dello stress e dell’ansia.

L’esperienza familiare
I bambini vivono le stesse esperienze delle loro famiglie: hanno quindi sperimentato la scomparsa di persone care – per lo più i nonni; hanno genitori che lavorano “in prima linea” contro il virus, o che hanno smesso di lavorare da tempo, o che hanno perso il lavoro o che lavorano da casa. Possiamo, comprensibilmente, aspettarci che queste esperienze impattino o impatteranno sulla loro salute, soprattutto mentale.
Le associazioni per i diritti dei bambini, la chiusura delle scuole e dei servizi per l’infanzia
Più in generale, e fin dalle prime fasi della pandemia, associazioni come Human Rights Watch che indaga su abusi, minoranze e soggetti fragili all’interno di diverse società hanno preso in considerazione diversi aspetti che impattano sulla vita dei bambini del mondo, dal 2020, sotto il segno della Covid-19 e i passi che i governi dovrebbero intraprendere per mitigarne gli effetti e migliorare in senso lato la salute dei bambini anche dopo l’epidemia. Un lungo elenco di altre associazioni: WHO, Unicef, the Global Partnership to End Violence Against Children – solo per citarne alcune – hanno puntato sulle famiglie, soprattutto quelle più fragili, con lo scopo di aiutare i genitori a comunicare con i bambini per diversi aspetti dell’epidemia e come aiutarli.

Un aspetto a cui solo recentemente è stata posta attenzione anche in Italia è quello della chiusura delle scuole e dei servizi per l’infanzia e delle ricadute sulla salute dei bambini, dai piccolissimi agli adolescenti. In Italia hanno interrotto la scuola oltre 9.040.000 bambini e ragazzi e oltre un milione di bimbi dei nidi e dei servizi educativi della prima infanzia.

Una cosa è certa ovvero che la situazione di confinamento, lockdown prima e quella della semi-libertà “del dopo”, ha determinato una condizione di stress notevolmente diffusa con ripercussioni significative a livello non solo della salute fisica, ma anche di quella emozionale-psichica, dei genitori e dei bambini.

Il linguaggio dei bambini, però, alla fin fine, viene, spesso, in soccorso con il suo carico di bellezza, speranza, magia fatta di colori, fantasia, analogie, storie e favole. Corona Virus rimanda alla parola “Corona” perché il virus si comporta come un Re tiranno, rendendo i popoli suoi sudditi, costringendoli a piegarsi alla sua volontà feroce…

Eppure, mi piace pensare che, in ogni storia/favola che si rispetti, ci sia sempre un finale, il tanto atteso “happy-end”«…e vissero per sempre felici e contenti».

 

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In Guinea ritorna l’epidemia di Ebola

In Guinea ritorna l’epidemia di Ebola. L’allarme arriva dopo la scoperta di sette casi di febbre emorragica. Non bastava la Covid-19, nel mondo, ora torna anche l’Ebola.

Guinea, dal covid agli altri virus

In piena pandemia Covid, mentre da più parti in Italia gli esperti invocano un nuovo lockdown nazionale o l’alternanza delle zone a colori, si torna a parlare di Ebola. L’Africa occidentale sta affrontando la sua prima recrudescenza del virus Ebola dalla fine dell’epidemia devastante, che ha colpito il continente tra il 2013 e il 2016, la peggiore mai registrata del virus, causando oltre 11.300 morti in 10 Paesi della regione.

La nuova epidemia di Ebola in Guinea: ieri e oggi

Anche allora l’epidemia era iniziata in Guinea, nella stessa regione sud-orientale dove sono stati scoperti i nuovi casi. Il virus è stato identificato per la prima volta nel 1976 nello Zaire, oggi Repubblica Democratica del Congo. Il caso iniziale, il cosiddetto paziente indice, è stato segnalato nel dicembre 2013.

Si ritiene che un ragazzo di 18 mesi di un piccolo villaggio della Guinea sia stato infettato da pipistrelli. Dopo che in quella zona si sono verificati altri cinque casi di diarrea fatale, il 24 gennaio 2014 è stato emesso un allarme medico ufficiale ai funzionari sanitari del distretto.

La prima ondata di Ebola fu identificata ufficialmente il 23 marzo 2014 dall’Organizzazione mondiale della sanità, con 49 casi confermati e 29 decessi, nella regione rurale boscosa della Guinea sud-orientale. Questi  primi casi segnarono l’inizio dell’epidemia di Ebola in Africa occidentale, la più grande nella storia. 

Qual è la situazione oggi?

Il capo dell’Agenzia nazionale per la sicurezza sanitaria Sakoba Keita ha spiegato che una persona è morta alla fine di gennaio a Gouecke, nella Guinea sud-orientale, vicino al confine con la Liberia. La vittima è stata sepolta il 1° febbraio e alcuni giorni dopo alcune persone che hanno preso parte al funerale hanno iniziato ad avere diarrea, vomito, sanguinamento e febbre: i sintomi tipici dell’Ebola.

Il nuovo focolaio è scoppiato in Guinea dopo che tre persone sono morte e almeno sette nuovi casi del virus mortale sono stati confermati, tanto che il primo ministro Ibrahima Kassory Fofana ha subito parlato di “epidemia”.

Non avveniva da 5 anni

Non avveniva da 5 anni. Tutte le persone che sono state a contatto sono in isolamento. La presenza dell’Ebola è stata confermata da un laboratorio della capitale. I casi sono stati riscontrati nella regione di Nzerekore, dove nel 2013 era scoppiata l’epidemia.

Però, il lato positivo è che sia la Guinea che l’OMS hanno affermato di essere meglio preparate ad affrontare l’Ebola ora rispetto a cinque anni fa grazie ai buoni progressi sui vaccini.

Guinea, Sierra Leone e Liberia hanno sopportato il peso della precedente epidemia, ma come molti Paesi dell’Africa occidentale, la Guinea ha risorse sanitarie limitate. Senza considerare che ha anche registrato circa 15mila casi di Covid e 84 morti.

Come si trasmette e si manifesta il virus

Ebola, un virus estremamente aggressivo e, spesso fatale, che appartiene alla famiglia dei Filoviridae, e la cui letalità varia dal 25% al 90%, a seconda del ceppo. La trasmissione avviene attraverso il contatto con sangue, secrezioni, organi o altri fluidi corporei di animali infetti. In Africa è stata documentata l’infezione a seguito di contatto con scimpanzé, gorilla, pipistrelli della frutta, scimmie, antilopi e porcospini trovati malati o morti nella foresta pluviale.

Il contagio è più frequente tra familiari e conviventi, per l’elevata probabilità di contatti e, generalmente, in condizioni igienico-sanitarie precarie. In 4 casi è stata documentata anche la trasmissione per via sessuale. Infezioni asintomatiche sono state documentate in uomini adulti in buona salute a contatto con scimmie o maiali infetti da un particolare ceppo di Ebola chiamato Restv.

L’infezione si manifesta con un decorso acuto: i soggetti malati sono contagiosi fino a quando il virus è presente nel sangue e nelle secrezioni biologiche. L’incubazione può andare da 2 a 21 giorni, a cui fanno seguito generalmente sintomi acuti caratterizzati da febbre, astenia, mialgie, artralgie e cefalea.

Mentre il mondo combatte contro la pandemia Covid-19, da quasi un anno, anche grazie ai vaccini, la cui efficacia (un nuovo studio Pfizer, in Israele, lo dà efficace), per l’Ebola non esiste ancora una cura.

Ad oggi, in fase di valutazione, esiste una ampia gamma di potenziali trattamenti tra cui emoderivati, terapie immunitarie e terapie farmacologiche in grado di migliorarne, quantomeno, la sopravvivenza.

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Covid, esistono persone immuni “per natura”?

Covid, esistono persone immuni “per natura”? La Covid-19, con cui si convive da un anno, per molti aspetti è ancora un mondo sconosciuto. Perché alcuni sono immuni al coronavirus “per natura”. La scienza spiega “perché”, analizzando i casi delle persone che non si sono infettate nonostante fossero a contatto ravvicinato con familiari e amici contagiati. Negativi, eppure sempre accanto a familiari positivi.

Covid, immuni, resistenti e casi anomali 

Ci sono persone che non vengono contagiate dalla Covid anche se convivono e si prendono cura di positivi sintomatici, magari anche in condizioni gravi. Com’è possibile? Oltre alla categoria degli asintomatici ci sarebbe quindi quella dei “resistenti? Il merito sarebbe del sistema immunitario, ma i meccanismi della protezione vanno studiati a fondo.

Di casi simili ce ne sono migliaia, tanto da spingere oltre 250 laboratori in tutto il mondo, coordinati dalla Rockfeller University di New York ad indagare.

Immuni: l’ipotesi al vaglio degli scienziati

L’ipotesi, secondo un team di lavoro di scienziati e genetisti di Tor Vergata, è che esistano dei geni che rendono alcuni soggetti più protetti dal contagio. I casi di persone che hanno vissuto a stretto contatto con malati Covid, ma non sono mai state infettate sono al vaglio dei ricercatori italiani, che stanno analizzando i dati assieme a un consorzio internazionale.

«Quando c’è una pandemia i fattori in gioco sono il patogeno, l’ospite e l’ambiente, ossia il contesto in cui si sviluppa l’infezione – spiega Giuseppe Novelli, genetista del policlinico Tor Vergata di Roma e presidente della Fondazione Giovanni Lorenzini di Milano – Noi ci siamo concentrati sulla seconda. Studiamo il Dna delle persone, facciamo correlazione statistica in base all’età e al sesso».

Lo studio: le differenze genetiche

“Ci siamo prima concentrati sui malati gravi e abbiamo scoperto che esiste un 10-12 per cento di casi che hanno una caratteristica genetica particolare, non riescono cioè a produrre interferone che è la prima molecola di difesa – spiega ancora Novelli – Sulla base di questa esperienza ci siamo chiesti se ci sono differenze genetiche in quelli che noi chiamiamo i “resistenti”, cioè persone che quando convivono con un soggetto che è certamente positivo non solo non si ammalano, ma non si infettano nemmeno”. 

Ma per scoprire perché serve tempo. Il tema è infatti complesso, l’immunità non è data solo dagli anticorpi, c’è anche quella cosiddetta cellulare, che mantiene la memoria nel tempo, molto più a lungo degli anticorpi che possono anche scomparire.

Una risposta, insomma, al momento sembra non esserci: il dibattito è aperto e la scienza ha la necessità di tempo per passare dal campo delle ipotesi a quello delle evidenze.

 

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