Nasce in Liguria il Centro Italiano dedicato alla Lavanda. Nella riviera di Ponente il primo Centro Italiano di formazione, cultura, ricerca e produzione della lavanda: una novità assoluta per fornire a livello nazionale tutto il supporto scientifico e culturale, ma anche di esperienza, necessario allo sviluppo delle attività di coltivazione, diffusione e promozione della lavanda.
Il Centro Italiano di Formazione Cultura Ricerca e Produzione Lavanda nasce in questi giorni, ma è figlio delle solide basi dell’esperienza maturata negli ultimi sei anni con il progetto Lavanda della Riviera dei Fiori, grazie alla collaborazione dei Comuni delle province di Imperia, Savona e Cuneo. La finalità è quella di “fare rete” o “fare sistema” e costituire un valido e reale punto di riferimento per la tutela e lo sviluppo di una produzione come quella della Lavanda.
La lavanda è una pianta meravigliosa, dal colore viola e il profumo intenso, utilizzata in campo estetico, erboristico e casalingo e il cui utilizzo affonda le proprie radici nell’antica tradizione nel nostro Paese.
Il nome francese lavande deriva dal verbo lavare e la pianta è originaria della zona del mediterraneo anche se si coltiva in tutto il mondo. E’ solo in Provenza però che possiamo ammirare dei paesaggi unici con infinite distese di campi di lavanda tanto che a giugno e luglio si festeggia la Festa della Lavanda.
Questa pianta ha una storia molto interessante e delle usanze davvero curiose. Già nel medioevo si utilizzava per lavare e disinfettare i pavimenti e al tempo degli antichi romani si mettevano dei rametti di lavanda nell’acqua dei bagni termali e si usavano per preparare infusi e decotti per la bellezza della pelle e dei capelli. Lo sapevate che la lavanda era la pianta degli innamorati che, per dimostrare il loro affetto, si scambiavano mazzolini di lavanda?
L’utilizzo della lavanda era molto usata anche per aromatizzare il cibo e per curare le malattie. Una leggenda provenzale narra che i guantai di Grasse utilizzavano l’olio di lavanda per profumare i pellami e grazie a questo divennero immuni dalla peste. Nell’800 venivano usate alcune gocce di essenza di lavanda nell’acqua del bucato e ancora oggi si utilizza per profumare gli ambienti. L’olio di lavanda, non a caso, è indicato per le palpitazioni di origine nervosa. Secondo alcuni studi, inoltre, il profumo della lavanda calma l’ansia e stimola addirittura la produttività in un ambiente di lavoro.
La lavanda, poi, ancora oggi, è considerata un portafortuna e una sorta di amuleto per garantire prosperità e fecondità a chi la indossa…
Sono nata a Modena, correva l’anno 1972, modenese da generazioni (e me ne vanto), ma ligure di adozione dal 2007. La mia Genova, un po’ matrigna. Ti respinge, ma poi ti ama… Ho sempre sognato di fare la scrittrice: ero convinta che quel mestiere mi avrebbe portato a scoprire il mondo. Reporter di viaggi e inviata stampa, per vent’anni, esclusivamente sulla carta stampata, tra premi letterari e il profumo di qualche libro a mia firma. E poi? Un balzo sul digitale, nell’anno bisestile e, dulcis, al tempo del Coronavirus. Amante viscerale degli animali, della natura, del mare, dell’avventura, del viaggiare al di là dei confini del mappamondo per raccontare i veri luoghi e la vera vita della gente del mondo. Appassionata di comunicazione, letteratura di viaggio, sociale, cronaca di vita, fotografia, musica e libri. E di racconti, di storie, di tante storie da raccontare…
OnlyFans, il nuovo social senza censura. E’ esploso, soprattutto, tra pandemia e lockdown, ma di cosa si tratta e come funziona? Il meccanismo è semplice: non c’è censura e quindi qui vengono condivisi anche foto e video di nudo (e non solo), ad alto contenuto erotico.
OnlyFans è una piattaforma di intrattenimento nata nel 2016 a Londra. Oggi conta oltre 85 milioni di utenti registrati (di cui un milione sono creator) e nel 2020 ha generato 2 miliardi di dollari in vendite di cui ha trattenuto circa il 20% come riporta Bloomberg. Per vederli bisogna pagare un abbonamento a chi li posta. Perché guardarli qui? La caratteristica è che sono “esclusivi”, cioè non si trovano altrove. Non solo, possono essere anche fatti su richiesta tra aste, mance e messaggi privati degli utenti, da cui passano i contenuti più “preziosi” e su misura (piedi compresi). C’è anche chi paga per l’intimo usato o solo per fare una chiacchierata.
Arrivano da personaggi famosi, come la pornostar Malena, il pluri campione mountain biker italiano Paolo Patrizi, lo spogliarellista Demo, Naomi De Crescenzo, oggi la seconda influencer e streamer più seguita d’Italia sulla piattaforma, la showgirl Elena Morali e la giovanissima, e ormai molto popolare, youtuber, influencer e modella Martina Vismara. Tra le star sul social, ci sono anche la rapper Cardi B che, nel suo stile “a tappeto”, ha avvisato i fan che non posterà contenuti hard, l’attore Michael B. Jordan e la modella ed influencer Bella Thorne, ma anche persone e ragazzi comuni.
In teoria, si possono mostrare a pagamento contenuti inediti, contenuti che non ci sono su nessun altro social. Per esempio: ci sono molti cuochi che qui pubblicano ricette segrete che sulle altre piattaforme non metterebbero, oppure YouTuber che mettono dei video commenti sportivi pubblicando la loro recensione: ovviamente per vedere tutto questo le persone devono iscriversi e pagare. Poi, contenuti hot, hard o porno addirittura.
OnlyFans, oltre alla finalità di partenza di mettere in contatto le celebrities coi loro fan, si sta ampliando sempre di più: in particolare, la mancanza di policy specifiche come quelle di Instagram che ha reso più “stretta” l’osservazione che il canale fa nei confronti dei propri utenti, che spesso vengono bannati o segnalati, ha permesso di portare avanti le attività anche durante la pandemia dei sex worker, che hanno trovato grande spazio e seguito sul canale. Su Instagram, infatti, per chi pubblica contenuti “al limite” delle loro policy si è in “shadow ban” (letteralmente «ban ombra»), ovvero un’azione di moderazione che consente di nascondere un determinato utente da una comunità online, oppure di rendere invisibili i contenuti da lui pubblicati ad altri utenti.
Il rischio maggiore è che chi illegalmente scarica il tuo video, potrebbe farlo girare su Telegram, ad esempio, che rende impossibile rintracciare chi lo fa, e rende impossibile far rimuovere i contenuti rubati, perché tutela su tutto la privacy di chi condivide quei contenuti, senza tutelare, in casi specifici, una persona che ha subìto un danno. Pertanto, tutti i contenuti che vanno su OnlyFans, anche quelli privati e da sbloccare, dal primo giorno possono diventare di dominio pubblico. La figura professionale del content creator, insomma, deve essere in pace con se stesso.
Su OnlyFans non si guadagna solo dagli abbonamenti, ma si possono fare contenuti da sbloccare in privato nel senso che, chi vuole vedere un certo contenuto, paga e lo sblocca, con la cifra che viene chiesta. Le statistiche interne fanno anche vedere chi lo sblocca, e hai una buona visibilità sulle azioni di chi ti segue: quindi creando una strategia di marketing, si può arrivare a guadagnare bene. Però, per avere successo occorre avere già una propria fanbase attiva, consolidata anche grazie a Twitch, da trasferire anche qui: se non si ha già un gruppo di fan, non si riesce a riscuotere abbastanza interesse. Le dirette live, poi, permettono ai follower di seguirti da vicino e, in maniera spontanea, questo li fa affezionare.
Tanto per citare alcuni nomi. Attualmente Naomi, l’italiana più seguita su OnlyFans, ha 1400 abbonati, è passata da 2mila al mese a cifre incredibili a 40mila dollari, magari in due mesi, senza mai scendere sotto i 10mila al mese mentre Martina Vismara arriva a guadagnare 100mila dollari al mese. Nel febbraio del 2019, del resto, il New York Times aveva spiegato come OnlyFans stesse cambiando il mondo della pornografia online. Insomma, monetizzare il proprio seguito online è quello che fa “chiunque” abbia un numero consistente di follower, in barba alla censura…?
Sono nata a Modena, correva l’anno 1972, modenese da generazioni (e me ne vanto), ma ligure di adozione dal 2007. La mia Genova, un po’ matrigna. Ti respinge, ma poi ti ama… Ho sempre sognato di fare la scrittrice: ero convinta che quel mestiere mi avrebbe portato a scoprire il mondo. Reporter di viaggi e inviata stampa, per vent’anni, esclusivamente sulla carta stampata, tra premi letterari e il profumo di qualche libro a mia firma. E poi? Un balzo sul digitale, nell’anno bisestile e, dulcis, al tempo del Coronavirus. Amante viscerale degli animali, della natura, del mare, dell’avventura, del viaggiare al di là dei confini del mappamondo per raccontare i veri luoghi e la vera vita della gente del mondo. Appassionata di comunicazione, letteratura di viaggio, sociale, cronaca di vita, fotografia, musica e libri. E di racconti, di storie, di tante storie da raccontare…
I laghetti di Rocchetta Nervina, in Liguria, sono pozze blu e verdi, con giochi di luce e riflessi. A levante come a ponente, sono posti tutti da scoprire, sempre rispettando l’ambiente e più accessibili nei mesi ‘caldi’, in tutti i sensi: clima e viabilità.
Stavolta “andiamo sempre per laghetti”, verso l’estremo Ovest, nella Riviera di Ponente e, precisamente, nell’imperiese. Tra loro, meritano una segnalazione i laghetti di Rocchetta Nervina nell’imperiese. Non lontani dalla strada, queste pozze paradisiache offrono una valida alternativa al bagno in mare. Se l’acqua è troppo fredda e non ve la sentite di tuffarvi, potete fare una bella escursione con gli occhi…
Come raggiungere questi laghetti nello scenario delle Alpi Liguri?
Rocchetta Nervina, situata sulla strada Provinciale della Val Nervia a circa 13 chilometri da Ventimiglia, è raggiungibile, oltre che dalla Statale Aurelia anche dall’Autostrada A10 con uscita a Bordighera o Ventimiglia. Inoltre, la Riviera Trasporti assicura un servizio regolare di autobus con partenza da Ventimiglia.
Appena a ridosso delle case del borgo medievale di Rocchetta Nervina inizia una serie di conche naturali conosciute come i laghetti, meta estiva per gli amanti della natura. Le acque limpide e cristalline che rispecchiano il blu del cielo e il verde brillante della vegetazione circostante rendono l’atmosfera selvaggia e suggestiva.
Più a monte si trova il canyon vero e proprio del torrente Barbaira in cui migliaia di sportivi di tutta Europa ogni anno praticano il torrentismo. Questo sport, che assembla le tecniche di discesa speleologica con l’alpinismo e il nuoto, rappresenta una grande attrazione e permette di conoscere un ambiente assolutamente unico quale è l’ecosistema della canyon del Barbaira, con le sue rocce, i muschi, le felci e i suoi bacini verde smeraldo.
Il sentiero per raggiungere il punto di inizio del canyon, ponte Cin, comincia presso l’Oratorio e passa accanto alla chiesetta campestre di San Bernardo. Il tracciato, che fa parte del sentiero Balcone, conduce, con una splendida passeggiata di cinquanta minuti, a Ponte Cin e più avanti al Ponte Pau.
Intorno a Rocchetta Nervina, quindi, tra il Barbaira e il Rio Oggia, si trovano tanti laghetti per fare un bagno rinfrescante e passeggiare immersi nella natura.
Perché, tra un dpcm e decreto legge, si tornerà a viaggiare “senza confini”, nel mentre non rinunciamo a farlo dentro noi e “vicino a casa”…
Personalmente, i laghi mi rimandano, da sempre, l’immagine di una sorta di pozzanghere rimaste dopo il diluvio. Le acque tranquille di un lago riflettono le bellezze che lo circondano; quando la mente è serena, la bellezza dell’io si riflette in essa.
E, per dirla alla Henry David Thoreau, “un lago è il tratto più bello ed espressivo del paesaggio. È l’occhio della terra, a guardare nel quale l’osservatore misura la profondità della propria natura”.
Sono nata a Modena, correva l’anno 1972, modenese da generazioni (e me ne vanto), ma ligure di adozione dal 2007. La mia Genova, un po’ matrigna. Ti respinge, ma poi ti ama… Ho sempre sognato di fare la scrittrice: ero convinta che quel mestiere mi avrebbe portato a scoprire il mondo. Reporter di viaggi e inviata stampa, per vent’anni, esclusivamente sulla carta stampata, tra premi letterari e il profumo di qualche libro a mia firma. E poi? Un balzo sul digitale, nell’anno bisestile e, dulcis, al tempo del Coronavirus. Amante viscerale degli animali, della natura, del mare, dell’avventura, del viaggiare al di là dei confini del mappamondo per raccontare i veri luoghi e la vera vita della gente del mondo. Appassionata di comunicazione, letteratura di viaggio, sociale, cronaca di vita, fotografia, musica e libri. E di racconti, di storie, di tante storie da raccontare…
Twitch e moderazione, come funziona e come abbonarsi. Tra le tante piattaforme di streaming in tempo reale esistenti Twitch.TV, è sicuramente la più famosa al mondo, contando a oggi milioni di utenti attivi che parlano di videogiochi e non solo.
Nata dall’idea di Justin Kan e Emmett Shear che nel 2007 crearono Justin.tv, trasformandolo poi in Twitch.tv nel 2011, la piattaforma è arrivata ad essere la quarta in classifica a generare più traffico su internet negli Stati Uniti. Dal 2014, inoltre, Twitch è stato venduto ad Amazon per una cifra pari a 970 milioni di dollari a vantaggio di diversi cambiamenti, come ad esempio la possibilità di collegare l’account Twitch all’abbonamento ad Amazon Prime.
Il colosso “viola” dello streaming permette a chiunque di approcciarsi al suo mondo. Cosa c’è da sapere? Per iscriverti ed entrare a far parte di questo universo interattivo ti basta creare un account Twitch, cliccando su Iscriviti in alto a destra oppure in basso a sinistra sotto la dicitura “Entra nella community di Twitch!” inserendo i tuoi dati (nome, cognome, email e data di nascita) o collegandoti con un account Facebook.
Però, se non vuoi creare un account di Twitch, puoi comunque vedere le live, ma non potrai comunicare tramite la chat, seguire lo streamer in modo da sapere quando è online o creare a tua volta dirette streaming (streammare).
Le funzioni di un account Twitch di base sono molteplici e tutte disponibili gratuitamente. Oltre ad accedere alla galleria di giochi trasmessi in tempo reale, Twitch TV permette di:
Diversi i vantaggi che la piattaforma può offrire, a partire dall’account gratuito o con l’abbonamento a Prime (a pagamento). Twitch Prime è la versione a pagamento dell’account di Twitch: il profilo premium.
Con l’account Premium di Twitch si ottengono diversi vantaggi come:
Abbonarsi a Twitch Prime è molto semplice. Come? Devi, innanzitutto, essere iscritto ad Amazon Prime e successivamente collegare Amazon Prime a Twitch. Se non hai mai usufruito di Amazon Prime, e di conseguenza di un account Twitch Prime, hai diritto a una prova gratuita di 30 giorni, potendo decidere al termine del periodo di prova se rinnovare l’abbonamento (36 euro annuali) oppure annullarlo.
Ecco come collegare il tuo account Prime a Twitch per usufruire dell’account premium:
Puoi collegare il tuo account Twitch ad Amazon Prime anche dalla piattaforma, direttamente dalle impostazioni del tuo account, cliccando su “Twich Prime” e poi su “Collega il tuo account Prime”.
E, non è finita, questo è utilizzabile sia da browser che da app, compatibile con numerosi dispositivi tra cui iOS, Android, Google Chromecast e Amazon Fire Stick.
La piattaforma di live streaming di intrattenimento è tra quelle che applicano misure più rigide sulla moderazione dei contenuti e il blocco degli utenti. Che possa essere un modello per altri social?
Come su YouTube o TikTok, anche su Twitch le attività ruotano intorno ai creator, ciascuno con una propria community. E il 2020 – complice la Covid-19 e il Mondo costretto a casa a causa dalle restrizioni anti-contagio – è stato un anno record: 17 miliardi di ore di visualizzazione, in crescita dell’83% rispetto al 2019.
Una serissima e blindata policy interna che regolamenta i contenuti: per tutelare gli utenti, infatti, Twitch può intervenire per sospendere in qualsiasi momento gli account che svolgono attività o pronunciano parole inopportune, immorali o rischiose. Gli addetti della piattaforma si trovano quindi, di caso in caso, a scegliere se rimuovere i contenuti dannosi, mandare un avvertimento agli utenti responsabili o sospenderli direttamente.
C’è di più. Non soltanto è possibile sospendere o bloccare gli account che ci infastidiscono, ma si possono eleggere “moderatori personali” che aiutino a moderare la community durante un livestream. Insomma, la moderazione da parte degli utenti, qui, è, indubbiamente, più sviluppata rispetto ad altri social.
Lo spauracchio che fa da padrone per i creator, però, è soprattutto il ban imposto dalla piattaforma, che può essere immediato ed essere temporaneo (fino a 30 giorni) o a tempo indeterminato. Questo secondo caso in gergo si chiama “permaban” e non si può contestare (come succede con altri social) in nessun modo: può essere un grande problema per gli utenti che vivono dei ricavati della piattaforma, tramite donazioni e pubblicità. Ad attirare un ban, si legge guardando il regolamento pubblicato online, possono essere frasi o atteggiamenti violenti, contro la privacy, illegali, autolesionisti, pornografici, discriminatori, d’istigazione all’odio, lesive della dignità. Definizioni precise ma, diciamolo, anche decisamente troppo “aperte” e ampie. Diventa difficile, in buona sostanza, per molti creator pensare di aggirare così tanti divieti, che lasciano discrezionalità ai moderatori della piattaforma di decidere della loro carriera.
Se, da un lato, la tecnologia e il mondo dei social corre “veloce” in rete, e nelle vite quotidiane, dall’altro il bivio è inevitabile e qual è il miglior approccio? Il confine si mantiene attorno a due: meno regole di moderazione che rischiano di lasciare impuniti alcuni comportamenti sbagliati o più regole che rischiano, però, di punire anche quando non sarebbe necessario? E, ancora, se i social “diventano tutto il mondo” dei bambini, dei ragazzi (e non solo) e di chi, come chi scrive, li usa per lavoro, qual è il rischio nella vita “reale”?
E’ un discorso lungo e complesso, così come l’impegno in tal direzione, che, da un lato, deve trovare il suo focus nella necessità di impedire che la distanza tra noi e i nativi digitali diventi incolmabile e, dall’altro, imparare dalla tecnologia, sempre più, per stare al passo con i tempi e per veicolare, al “meglio”, il proprio compito comunicativo/educativo, per interagire con i propri lettori o per lanciare iniziative sociali coinvolgenti.
Sono nata a Modena, correva l’anno 1972, modenese da generazioni (e me ne vanto), ma ligure di adozione dal 2007. La mia Genova, un po’ matrigna. Ti respinge, ma poi ti ama… Ho sempre sognato di fare la scrittrice: ero convinta che quel mestiere mi avrebbe portato a scoprire il mondo. Reporter di viaggi e inviata stampa, per vent’anni, esclusivamente sulla carta stampata, tra premi letterari e il profumo di qualche libro a mia firma. E poi? Un balzo sul digitale, nell’anno bisestile e, dulcis, al tempo del Coronavirus. Amante viscerale degli animali, della natura, del mare, dell’avventura, del viaggiare al di là dei confini del mappamondo per raccontare i veri luoghi e la vera vita della gente del mondo. Appassionata di comunicazione, letteratura di viaggio, sociale, cronaca di vita, fotografia, musica e libri. E di racconti, di storie, di tante storie da raccontare…
Neet: chi e quanti sono in Italia e in Europa? Sono chiamati Neet, acronimo inglese che sta per “neither in employment nor in education or training” o “not in education, employment or training”, e sono i giovani del terzo millennio, figli dei mutamenti sociali, economici e culturali, e le loro situazioni sono molto diverse tra loro.
Nello specifico, sono gli inattivi, coloro che non studiano, non lavorano e non sono impegnati in percorsi formativi. L’acronimo compare per la prima volta nel 1999 in uno studio della Social Exclusion Unit, un dipartimento del
governo del Regno Unito preoccupato che i giovani “Not in Education, Employment or Training” fossero in una condizione di esclusione tale da favorire l’avvio di carriere criminali.
In Italia sono 2.116.000 i giovani NEET, secondo gli ultimi dati dell’Istat, e la loro condizione è strettamente associata alla fase di transizione all’età
adulta, in cui si passa da giovane ad adulto. La sociologia ci insegna che la transizione nel modello di società occidentale è segnata da cinque tappe: l’uscita dalla casa dei genitori, il completamento del percorso educativo, l’ingresso nel mercato del lavoro, la formazione di una famiglia ed infine l’assunzione di responsabilità verso i figli.
A partire dagli anni ’70-’80 questa fase ha cominciato a diventare sempre più lunga. Se prima il modello era “scuola-lavoro-famiglia”, più o meno alla stessa età per tutti, oggi, però, il percorso è molto più disuguale, personalizzato e imprevedibile.
Se da un lato è più difficile, oggi, per loro, entrare nel mondo del lavoro, è vero anche che, rispetto a prima, si studia di più, si viaggia di più, ci si diverte di più. Insomma, si diventa grandi più tardi per necessità ma, diciamolo, anche per piacere o, per meglio dire, per “dolcefarniente”.
L’influente rapporto dedicato ai NEET da Eurofound, un’agenzia di ricerca dell’Unione Europea, individua cinque sottogruppi all’interno del mondo NEET:
Insomma, una categoria eterogenea, dove c’è l’hikikomori, letteralmente “stare in disparte” che viene utilizzato, in gergo, per riferirsi a chi decide di ritirarsi dalla vita sociale per lunghi periodi, chi non esce mai di casa, insomma, ma anche il/la neolaureato/a che si prende un anno “sabbatico ” per girare il mondo.
Si comincia, semplicemente, smettendo di studiare, ma senza iniziare a lavorare, viaggiando o stando in casa, come si diceva. Ci sono dei fattori socio-economici che incidono sulla condizione di NEET. Quali sono questi fattori? Il rapporto Eurofound li riassume così:
Con la pandemia in Italia sono aumentati gli inattivi o i Neet, stando in un rapporto trimestrale sull’occupazione pubblicato dall’esecutivo Ue (fonte Ansa). Nel nostro Paese i giovani tra i 15 e i 24 anni che non lavorano né studiano hanno raggiunto il 20,7% nel secondo trimestre del 2020, seguono la Bulgaria (15,2%) e la Spagna (15,1%).
In generale, in tutta l’Ue il tasso di Neet è aumentato all’11,6% nel secondo trimestre del 2020 rispetto allo stesso trimestre del 2019. Mentre il tasso di attività delle persone tra i 15 e i 64 anni è sceso al 72,1% in tutta l’Ue. Nell’Ue, poi, le misure per il Covid sono riuscite ad attutire i cali del reddito da lavoro dipendente soprattutto nei lavoratori meno pagati. Mentre solo in Italia e in Austria le persone con reddito medio hanno avuto una minore riduzione del salario rispetto a chi percepisce stipendi più bassi.
Nell’aprile 2013, è stata adottata la proposta della Commissione europea al Consiglio dell’Unione europea di attuare una Garanzia per i giovani in tutti gli Stati membri. Ridurre il numero di NEET è un obiettivo politico esplicito della Garanzia per i giovani. Questa iniziativa mira a garantire che tutti i giovani di età compresa tra i 15 e i 24 anni ricevano un’offerta di lavoro di qualità, formazione continua, apprendistato o tirocinio entro quattro mesi dalla disoccupazione o dal completamento dell’istruzione formale.
Qualcosa si può fare, se è vero che ci sono contesti in cui la sua diffusione è molto minore che in altri. Sono tre le istituzioni cruciali quando parliamo di giovani NEET: il sistema educativo, il sistema di welfare e il mercato del lavoro. Le politiche che vogliono intervenire sul fenomeno devono quindi intervenire sul funzionamento di queste tre istituzioni, creando un contesto dove i giovani abbiano la possibilità e il desiderio di studiare, lavorare e vivere appieno come cittadini “attivi” e, va da sé, giocoforza, prevenendo e/o contrastando l’abbandono scolastico…
Sono nata a Modena, correva l’anno 1972, modenese da generazioni (e me ne vanto), ma ligure di adozione dal 2007. La mia Genova, un po’ matrigna. Ti respinge, ma poi ti ama… Ho sempre sognato di fare la scrittrice: ero convinta che quel mestiere mi avrebbe portato a scoprire il mondo. Reporter di viaggi e inviata stampa, per vent’anni, esclusivamente sulla carta stampata, tra premi letterari e il profumo di qualche libro a mia firma. E poi? Un balzo sul digitale, nell’anno bisestile e, dulcis, al tempo del Coronavirus. Amante viscerale degli animali, della natura, del mare, dell’avventura, del viaggiare al di là dei confini del mappamondo per raccontare i veri luoghi e la vera vita della gente del mondo. Appassionata di comunicazione, letteratura di viaggio, sociale, cronaca di vita, fotografia, musica e libri. E di racconti, di storie, di tante storie da raccontare…
Andar per laghetti in Liguria: un tuffo nel verde. La primavera, un’altra sotto il segno della Covid-19, è alle porte, la voglia irrefrenabile di libertà, la fuga dalla città, anzi dalle case di città, evitando il caos autostrade, code, ingorghi e senza “assembrarsi” nelle spiagge gremite di persone, ci spinge a cercare spazi aperti e “nascosti”, quasi “segreti”.
Esiste un’alternativa. Quale? I laghetti. Hanno il vantaggio di essere anche meno frequentati e, di conseguenza, più vivibili. Inoltre, sono raggiungibili in auto e disposti in direzione contraria a quella percorsa dai turisti, che ogni weekend invadono le autostrade. Ecco allora una lista di quelli “più comodi” per i genovesi (e non) che desiderino rifugiarcisi alla ricerca del fresco perduto. Per fare un bagno, o semplicemente fare una passeggiata turistica costeggiandoli.
Gioiello del levante genovese, Nervi è sia località balneare che luogo di relax per via dei suoi bellissimi parchi. Pochi sanno, però, che offre anche un’altra occasione di fuga dalla città: i suoi laghetti. Immersi in un meraviglioso panorama naturale a pochi chilometri dal mare, i laghetti di Nervi sono caratterizzati da acque verdi e limpide, ed essendo coperti per gran parte dagli alberi, rappresentano davvero il luogo perfetto in cui rilassarsi al fresco.
Come arrivare ai Laghetti di Nervi? Entrati a Nervi e scesa la rampa da Corso Europa raggiungendo via Oberdan (via principale di Nervi), dopo 10 metri svoltare a sinistra in via del Commercio. Si giunge ad un bivio e si segue verso destra fino al cimitero di Nervi. Si prosegue ora con il torrente scoperto, fino quasi al termine della via. Quindi si prende l’unica strada che c’è a destra, è una ripida salita (via superiore Torrente Nervi) che porta al cimitero nuovo. Dopo circa 300 m si posteggia nelle vicinanze di via Molinetti di Nervi, stradina collinare transitabile solo in moto, in mountainbike o a piedi. Percorsi 1,6 km si raggiunge il piccolo borgo di Molinetti che sovrasta i Laghetti di Nervi.
Il sentiero naturalistico dei Laghi del Gorzente è un paradiso a pochi chilometri da Genova, con il verde intenso dei pini e l’azzurro delle acque dei laghi, che si trovano tra Bosio (Alessandria), Campomorone e Ceranesi. Si inizia con un percorso in piano, per poi attraversare dei ruscelli e giungere al lago Lungo. Si può proseguire su un sentiero prima in salita e poi in discesa, prima di approdare al lago Bruno. Qui potete raggiungere la Casa del Guardiano, e poi proseguire sull’altra sponda del Lago Lungo fino ad arrivare alla sbarra e scendere al Passo di Prato Leone per tornare al valico di Prou Renè, dove solitamente si lasciano le auto. Sul il percorso ci sono i cartelli che indicano Sentiero naturalistico Laghi del Gorzente.
Lungo il corso del fiume, prima di arrivare ai laghi artificiali (dove non si può fare il bagno), c’è un sentiero naturalistico pianeggiante e agevole e la possibilità di fare escursioni oppure un bagno nel torrente Gorzente. Per arrivare bisogna andare fino al Parco Regionale delle Capanne di Marcarolo, dove ai Piani di Praglia parte il sentiero per i laghi del Gorzente.
Sempre a Ponente, ma tornando verso Genova (in Val Varenna), ci sono i laghetti di San Carlo, a San Carlo di Cese, sopra Pegli. Per raggiungerli, poco prima di San Carlo, si parcheggia la macchina lungo la strada e si scende verso il sentiero che segue il torrente Rio Gandolfi. Subito si incontrano due laghetti piuttosto grandi, ma proseguendo il sentiero se ne possono trovare altri più piccoli, ma puliti e tranquilli.
Nell’entroterra ligure, in Valbrevenna, nei dintorni di piccoli paesi del comune di Montoggio, resistono alcuni specchi d’acqua, totalmente immersi nel verde, che offrono l’opportunità di immergersi in laghetti ancora non inquinati e di prendere il sole in un clima fresco e piacevole. Non fatevi spaventare da percorso tortuoso che dovrete fare per arrivarci: la giornata passata in acqua vi consolerà.
Ecco come raggiungerli: una volta arrivati a Montoggio, a circa 50 minuti dal centro di Genova, dovete dirigervi verso Casella. Sulla via si apriranno le indicazioni per diversi paesi: la strada che io ho percorso in macchina è quella in direzione di Valbrevenna e poi di Molino Vecchio, paese che si trova proprio all’imbocco della Valle. Dalla macchina, bisogna aguzzare la vista per scovare i laghetti tra la vegetazione. Non ci sono altre indicazioni per trovarli, ma se proprio vi trovate in difficoltà, chiedete indicazione agli abitanti del posto. Sulla via del ritorno a casa potrete, inoltre, godere di uno spettacolo affascinante: la città vista dall’alto, nel suo sposalizio di mare e monti.
Se siete alla ricerca di una zona tranquilla e sconosciuta ai più, non potete perdervi i Laghetti della Valle del fiume Lentro, tra il Monte Fasce e il colle di Traso. Sullo stesso percorso che scorre lungo il fiume Lentro si incontrano, partendo da Viganego in Val Bisagno, prima il Laghetto del Ponte e poi, avanzando oltre i ruderi di antichi mulini, il Laghetto Muin. Il percorso è semplice e adatto a tutti e una volta scelto il laghetto preferito per la giornata non resta che rilassarsi tra le fresche acque e il verde della natura.
Spostandosi in un’altra valle della provincia di Genova, la Valle Stura, si incontra un altro laghetto degno di nota: il Lago del Pignattin. Semi nascosto nel tratto più selvaggio della valle, il lago è immerso nella pace più completa ed è caratterizzato da una purissima acqua trasparente. Lo si raggiunge da San Pietro di Masone e seguendo la traccia gialla fino a raggiungere questo spiazzo incontaminato.
Un’altra località balneare inconsapevole ospite di un punto di ritrovo nella natura è Arenzano, Comune del Ponente ligure localizzata all’interno del comprensorio del Parco Naturale del Beigua. I laghetti della Tina sono un vero angolo di paradiso tra la montagna e il mare, inseriti in una splendida cornice naturale e con vista aperta sul panorama sottostante. Vi si accede dalla località di Curlo, dove si deve lasciare la macchina e proseguire a piedi in un percorso adatto anche ai più piccoli.
Nel ponente, non mancano i torrenti dove fare un bel bagno. Uno di questi è l’Arrestra che nasce dalla dorsale tra il Monte Beigua (1287 m) e il Monte Sciguello (1103 m), ed è formato da due rami sorgentizi: il Rio Scaggion (a ovest) e il Rio Prialunga (a est).
Per raggiungerli si parte da Varazze, seguendo le indicazioni per il Monte Beigua, e si prosegue sulla provinciale in direzione Casanova verso la località Faje. La strada sale su per la dorsale tra la valle del torrente Teiro a ovest, che sfocia a Varazze, e quella dell’Arrestra, che sfocia tra Varazze e Cogoleto segnando il confine tra le province di Savona e di Genova. Su una curva in cui il paesaggio si apre (Passo del Muraglione), si trovano le indicazioni per il Deserto di Varazze: prendendo la strada in discesa per circa due km, si vede scorrere il Rio Scaggion, ed è proprio al secondo ponte che potrete lasciare l’auto e iniziare il percorso a piedi.
Una piccola pista in salita, indicata da segnavia giallo, risale il corso d’acqua lungo la sponda destra e in circa dieci minuti porta a una cascata che, scendendo da un’enorme massa di roccia verde, forma un’ampia pozza profonda, raggiungibile da un sentiero secondario poco evidente. Questo è il punto più soleggiato della valle del Rio Scaggion e, grazie alle ampie rocce piatte e lisce che si trovano a valle della pozza, è possibile stendersi a prendere il sole o, se la temperatura lo consente, ad asciugarsi dopo un bagno nell’acqua fresca del torrente.
Tornando al sentiero principale, in circa quindici minuti si può raggiungere un’altra pozza più profonda, caratterizzata da uno scalino nel punto in cui entra l’acqua e da una grande roccia piatta. Questa zona è più ombrosa della precedente, ma essendo lungo il sentiero principale, è più facile da raggiungere. L’itinerario del Rio Scaggion è meno soleggiato, ma accessibile a tutti, mentre gli appassionati di canoa potranno avventurarsi lungo il Rio Prialunga che, va ricordato, è più pericoloso e famoso per le sue spettacolari cascate.
Una volta asciugati e riposati, se avete voglia di concludere in bellezza la giornata, potrete visitare l’Eremo del Deserto (info 019 918050), convento dei Carmelitani Scalzi risalente al XVII secolo che si trova poco distante, acquistare miele e prodotti tipici o percorrere un sentiero botanico con decine di specie. E infine rifocillarvi all’agriturismo Fonda (info 019 918201), rinomato per la sua cucina e per le sue merende.
In Val d’Aveto si trova un’altra gemma lacustre nascosta: il Lago delle Lame. Il lago è, in realtà, una serie di conche di dimensioni variabili formate con l’erosione operata da un antico ghiacciaio e oggi ricche di acqua e di vita. Tra le attività da fare, oltre allo starsene in panciolle a godersi il fresco, sono consigliate la pesca alla trota, la visita al Museo del Bosco e la passeggiata alla Cascata di Ravezza. Per arrivare al Lago si esce dall’autostrada a Carasco e si seguono poi le indicazioni per Rezzoaglio e il bivio per il lago.
Appena a ridosso delle case di Rocchetta Nervina (Imperia), inizia una serie di conche naturali conosciute come i laghetti, meta estiva per gli amanti della natura. Le acque limpide e cristalline che rispecchiano il blu del cielo e il verde brillante della vegetazione circostante rendono l’atmosfera selvaggia e suggestiva.
Più a monte si trova il canyon vero e proprio del torrente Barbaira in cui migliaia di sportivi di tutta Europa ogni anno praticano il torrentismo. Questo sport che assembla le tecniche di discesa speleologica con l’alpinismo e il nuoto, rappresenta una grande attrazione e permette di conoscere un ambiente assolutamente unico quale è l’ecosistema della canyon del Barbaira, con le sue rocce, i muschi, le felci e i suoi bacini verde smeraldo. Il sentiero per raggiungere il punto di inizio del canyon, ponte Cin, comincia presso l’Oratorio e passa accanto alla chiesetta campestre di S. Bernardo. Il tracciato, che fa parte del sentiero Balcone, conduce, con una splendida passeggiata di cinquanta minuti, a Ponte Cin e più avanti al Ponte Pau.
La Liguria, non è particolarmente conosciuta per i suoi laghi e laghetti, balneabili e non, il turismo, quello sempre più di prossimità, dettato dall’emergenza Coronavirus, riscopre l’entroterra: laghi, fiumi e sentieri, da ponente a levante.
Mi piaceva viaggiare, insieme a voi, per laghetti, fare un tuffo nel verde ligure, alla scoperta di angoli di paradiso. Anzi, alla riscoperta…
Sono nata a Modena, correva l’anno 1972, modenese da generazioni (e me ne vanto), ma ligure di adozione dal 2007. La mia Genova, un po’ matrigna. Ti respinge, ma poi ti ama… Ho sempre sognato di fare la scrittrice: ero convinta che quel mestiere mi avrebbe portato a scoprire il mondo. Reporter di viaggi e inviata stampa, per vent’anni, esclusivamente sulla carta stampata, tra premi letterari e il profumo di qualche libro a mia firma. E poi? Un balzo sul digitale, nell’anno bisestile e, dulcis, al tempo del Coronavirus. Amante viscerale degli animali, della natura, del mare, dell’avventura, del viaggiare al di là dei confini del mappamondo per raccontare i veri luoghi e la vera vita della gente del mondo. Appassionata di comunicazione, letteratura di viaggio, sociale, cronaca di vita, fotografia, musica e libri. E di racconti, di storie, di tante storie da raccontare…
In Liguria la suggestiva fioritura delle camelie di Pegli. Uno spettacolo che rapisce gli occhi e il cuore durante la fioritura primaverile nell’incantevole cornice di Villa Durazzo Pallavicini, a Pegli, nel ponente genovese, un evento che, solo nello scorso anno, ha richiamato 20 mila visitatori, provenienti da tutta Italia e dall’estero.
Ogni anno, da metà febbraio ad inizio aprile, le camelie in fiore regalano incredibili scenari nel Parco di Villa Durazzo Pallavicini, un vero e proprio polmone verde in Liguria, uno dei più belli, grandi e antichi d’Italia e tra i più importanti d’Europa.
I registri dei visitatori, dell’epoca, non lasciano spazio a dubbi: gli amici del marchese – perché ovviamente si entrava solo su invito del padrone di casa – provenivano da New York, dal Cile, dalla Russia.
Quest’anno si prevede che la fioritura sia godibile al Parco e al Camelieto storico fino al 5 aprile. C’è tutto il tempo, dunque, per scoprire tutte le curiosità su queste meravigliose piante antiche, un tempo coltivate direttamente dalla marchesa Clelia Durazzo, donna scienziato del ’700, botanica esperta, ancora oggi simbolo di emancipazione femminile.
Eleganti camelie dai mille colori, sfumature e forme aspettano genovesi (e, Covid-19 permettendo, anche i turisti) nel giardino romantico di Villa Pallavicini.
Il Camelieto storico nel Parco di Villa Durazzo Pallavicini a Genova Pegli, si trasforma in un luogo magico, all’avvicinarsi della primavera, punteggiato di fiori bianchi, rosa accesi e rossi, dove fantasticare di incontrare Margherita Gautier, la “La Dame aux camélias”, “La signora delle camelie” di Alexandre Dumas figlio (1848) e tuffarsi in un romanzo di fine ‘800, intriso di amori e passioni.
Il Viale delle Camelie si estende su 200 metri, con veri e propri alberi di camelie, 150 specie tutte diverse tra loro, che superano i 6 metri, accoglie i visitatori con i suoi colori e il suo tappeto di fiori per vivere un’esperienza unica: un viaggio romantico ligure tra le piante più intriganti della “Villa”, attraverso restauri, coltivazione e curiosità d’altri tempi ascoltate dalle voci esperte delle visite guidate.
Si tratta della specie Camelia Japonica che, crescendo e sviluppandosi nel tempo, ha dato vita a centinaia di cultivar dai diversi colori e dalle diverse forme e quantità di petali: la Vergine di Colle beato, la Warratah rubra, l’Incarnata, l’Eleonora Franchetti, la Bella di Firenze.
Il Parco, di evidente ispirazione romanica, viene realizzato tra il 1837 e il 1846 (anno in cui venne inaugurato), da Michele Canzio, all’epoca scenografo del Teatro Carlo Felice, che creò, non a caso, una vera e propria rappresentazione teatrale “open air”.
Il percorso di visita è, infatti, articolato in prologo, antefatto, tre atti, ognuno composto da affascinanti scenografie caratterizzate da laghi, torrentelli, cascate, templi, grotte, arredi, piante rare, scorci visivi e inganni scenografici capaci di far smarrire i confini di questo luogo fiabesco.
Camelie
Le camelie, delicate corolle e petali purpurei portati via dal vento ancora freddo di un mite fine inverno, sono una delle piante decorative più conosciute: dalle sue foglie si ricava un tè dalle proprietà energizzanti e dai suoi fiori un olio dalle molteplici virtù cosmetiche.
Tante le curiosità di questi fiori così seducenti. Prima tra tutte e, a seconda del colore, il significato della camelia trasmette un messaggio diverso: rosa significa nostalgia e desiderio di ritrovarsi, mentre rosso dichiara che il cuore è infiammato di passione, ma entrambi le tonalità rappresentano l’amore romantico.
E la versione variegata? E’ simbolo di fiducia e speranza; bianco testimonia profondo affetto, a fiore doppio segnala quanto si pensi a una persona mentre quella semplice indica adorazione e bellezza.
Poi, lo sapevate che hanno affascinato una tra le più grandi stilisti della storia, Coco Chanel? Se ne innamorò così tanto da farla diventare un riferimento costante nelle sue collezioni. Ad ognuno, insomma, la propria camelia e…qual è la vostra preferita?
Info: https://www.villadurazzopallavicini.it/
prenotazione obbligatoria : info@villadurazzopallavicini.it
393 8830842 / 010 8531544 biglietto online
Sono nata a Modena, correva l’anno 1972, modenese da generazioni (e me ne vanto), ma ligure di adozione dal 2007. La mia Genova, un po’ matrigna. Ti respinge, ma poi ti ama… Ho sempre sognato di fare la scrittrice: ero convinta che quel mestiere mi avrebbe portato a scoprire il mondo. Reporter di viaggi e inviata stampa, per vent’anni, esclusivamente sulla carta stampata, tra premi letterari e il profumo di qualche libro a mia firma. E poi? Un balzo sul digitale, nell’anno bisestile e, dulcis, al tempo del Coronavirus. Amante viscerale degli animali, della natura, del mare, dell’avventura, del viaggiare al di là dei confini del mappamondo per raccontare i veri luoghi e la vera vita della gente del mondo. Appassionata di comunicazione, letteratura di viaggio, sociale, cronaca di vita, fotografia, musica e libri. E di racconti, di storie, di tante storie da raccontare…
Cubhouse, il nuovo social di cui tanto “si parla” e… in cui si parla. Ma come funziona questa “chat audio” del momento?
La nuova app – una sorta di “social web radio” in cui si discute “a voce”, si parla, nel vero senso della parola, all’interno di “stanze” tematiche – che ha da pochissimo iniziato a diffondersi anche in Italia. Clubhouse è stato lanciato per la prima volta su iOS nell’aprile 2020, dalla Alpha Exploration Co. e creato da Paul Davison e Rohan Seth, ma è diventata popolare nei primi mesi della pandemia di COVID-19, specialmente dopo un investimento di 12 milioni di dollari nel maggio 2020.
Numeri che parlano. A dicembre 2020, il social contava circa 600.000 utenti ed era accessibile solo su invito, ad oggi seppur resta la politica dell’accesso su invito gli utenti sono arrivati quasi a 2 milioni a gennaio 2021. Nel gennaio 2021, la società ha annunciato che avrebbe iniziato a lavorare su un’applicazione Android nei mesi successivi, ma non si sa altro. L’applicazione, del resto, è cresciuta notevolmente, come popolarità, grazie ad Elon Musk.
Diversamente da Facebook, e più simile a Twitter, Clubhouse è pensato per conversare di qualsiasi argomento con chiunque, o anche solo per ascoltare altri che parlano. Potrebbe assomigliare a Telegram, se Telegram fosse fatto di soli messaggi vocali, con la differenza che in Clubhouse non c’è nulla di registrato: si parla solo live, chiedendo di intervenire con una simbolica alzata di mano. Al posto dei “canali” di Telegram, però, i gruppi sono chiamati “stanze”.
Il social del momento “non è per tutti”, per ora, in Italia. E’ ancora in una versione di sviluppo e ci si può creare un profilo solo se si viene invitati da un altro utente. Ci si può accedere solo da una app (non dal browser di un computer), e soltanto in inglese, che può essere scaricata solo su iPhone o iPad con sistema operativo iOS 13.0 o più aggiornato. Gli utenti attivi in Italia sono sicuramente più di 50mila.L’app, dopo aver concesso 2 inviti ad ogni utente, ha accelerato ancora di più sui nuovi ingressi, concedendo ulteriori 3 inviti a testa verso una crescita esponenziale.
Che fosse Elon Musk, il guru dell’informatica e della robotica, il fondatore di Tesla e SpaceX, patron di Neuralink, il progetto ambizioso per collegare il cervello umano con l’intelligenza artificiale, e l’inventore di PAY PAL a dettare le tendenze del mondo online si è avuta con Clubhouse, quando lo scorso febbraio ha mandato in tilt la piattaforma dando appuntamento ai suoi numerosi follower di Twitter per parlare, toccando diversi temi e raccogliendo 5.000 persone, ai limiti della capienza consentita. Musk ha parlato della missione per portare l’uomo su Marte, del progetto Neuralink per creare un’interfaccia di connessione tra cervello e macchina, ma anche di Bitcoin, di intelligenza artificiale.
Clubhouse ha invitato col contagocce alcune delle personalità più note dello spettacolo statunitense – tra i primissimi Oprah Winfrey, Drake, Kevin Hart, Chris Rock – oltre a diverse celebrità, vip, influencer, giornalisti, esperti del mondo digitale e personaggi noti – in Italia si sono visti fin dai primi giorni nomi come Fiorello, Michelle Hunziker, Luca Bizzarri, Andrea Delogu e molti altri. Nomi – questi – che hanno senz’altro contribuito all’intrigante e misterioso successo del social.
Se non hai ancora un account richiedi comunque di entrare: i tuoi amici (le persone che hanno il tuo numero in rubrica) potranno farti accedere. Come si entra? Con il numero di telefono, niente mail. Quando ti registri inserisci nome e cognome reali: non potrai cambiarli successivamente, ma c’è la possibilità di inserire anche un nickname. Non è obbligatorio parlare: se sei timido e vuoi semplicemente ascoltare quello che succede nelle varie stanze puoi farlo, entrando ed uscendo a tuo piacimento.
Clubhouse, però, premia l’interazione e gli speaker: chi parla viene visualizzato in evidenza, a seguire nelle stanze appaiono gli amici degli speaker, poi tutti gli altri. Quindi, per farsi notare e acquisire nuovi follower la prima cosa da fare è intervenire e partecipare attivamente alle discussioni. Poi, c’è la bio che ha un ruolo fondamentale: è uno spazio dove puoi scrivere qualsiasi cosa, ma solo le prime 3 righe vengono sempre viste. I link non sono attivi, ma puoi sfruttare i collegamenti a Twitter e Instagram per rimandare gli utenti sugli altri tuoi social.
Il trend “del social del futuro”, però, sembra essere in discesa, evidenziato anche dai dati di Google, che nel corso delle ultime settimane ha registrato un enorme calo nell’interesse dimostrato verso Clubhouse dopo il boom registrato ad inizio febbraio. Oggi? Che fine anno fatto le decine di “room” attive nei primi giorni?
Il social esclusivo “della voce” divide, insomma, tra numeri e tendenze, dubbi e perplessità sulla policy della privacy dei dati, di ieri e oggi: chi è a “caccia” dell’invito, chi, almeno all’inizio, metteva in vendita i propri inviti su Ebay e, dulcis, chi pensa sia già al tramonto…
Sono nata a Modena, correva l’anno 1972, modenese da generazioni (e me ne vanto), ma ligure di adozione dal 2007. La mia Genova, un po’ matrigna. Ti respinge, ma poi ti ama… Ho sempre sognato di fare la scrittrice: ero convinta che quel mestiere mi avrebbe portato a scoprire il mondo. Reporter di viaggi e inviata stampa, per vent’anni, esclusivamente sulla carta stampata, tra premi letterari e il profumo di qualche libro a mia firma. E poi? Un balzo sul digitale, nell’anno bisestile e, dulcis, al tempo del Coronavirus. Amante viscerale degli animali, della natura, del mare, dell’avventura, del viaggiare al di là dei confini del mappamondo per raccontare i veri luoghi e la vera vita della gente del mondo. Appassionata di comunicazione, letteratura di viaggio, sociale, cronaca di vita, fotografia, musica e libri. E di racconti, di storie, di tante storie da raccontare…
L’8 marzo: storia e significato. Una data conosciuta in tutto il mondo per essere la festa della donna. In realtà parlare di festa è improprio: questa giornata è, infatti, dedicata al ricordo e alla riflessione sulle conquiste politiche, sociali, economiche del genere femminile, dunque è più corretto parlare di giornata internazionale della donna.
La storia della festa delle donne risale ai primi del Novecento. Per molti anni l’origine dell’8 marzo si è fatta risalire a una tragedia accaduta nel 1908, che avrebbe avuto come protagoniste le operaie dell’industria tessile Cotton di New York, rimaste uccise da un incendio.
L’incendio del 1908 è stato però confuso con un altro incendio nella stessa città, avvenuto nel 1911, il 25 marzo, della Triangle Shirt Waist Company, e dove si registrarono 146 vittime (39 italiani), fra cui molte donne, che vi rimasero intrappolate, bruciando vive o lanciandosi dalla finestre dell’ottavo e nono piano dell’Asch Building, oggi sede del Dipartimento di scienze della New York University.
Le vittime dell’incendio erano per la maggior parte giovani immigrate che lavoravano 14 ore al giorno, 6 giorni a settimana, per una manciata di dollari. I proprietari, per timore che le “sartine” si allontanassero dal posto di lavoro, avevano dato ordine di chiudere a chiave le porte: quando scoppiò il rogo, l’Asch Building si trasformò in una trappola mortale.
I resti delle vittime non riconosciute furono sepolti nel cimitero di Evergreens, al confine tra Brooklyn e Queens. A distanza di un secolo, gli ultimi 6 ignoti, 5 donne e un uomo, sono stati identificati e rivelati nel 2011, nel centenario della tragedia, grazie alla tenacia del ricercatore Michael Hirsch.
Peccato però che, al processo, i proprietari della fabbrica, Max Blanck e Isaac Harris, non vennero dichiarati colpevoli di alcun reato e i lavoratori del settore tessile scesero in piazza per alcune settimane di fronte all’edificio, fino a quando la municipalità decise di adottare misure di sicurezza a tutela dei lavoratori.
Tuttavia, i fatti che hanno realmente portato all’istituzione della festa della donna sono in realtà più legati alla rivendicazione dei diritti delle donne, tra i quali il diritto di voto (30 gennaio 1945).
Sì, possiamo dire che la Festa della donna ha origine dei movimenti femminili politici di rivendicazione dei diritti delle donne di inizio Novecento, in termini di conquiste sociali, economiche e politiche, di discriminazioni e delle violenze di cui le donne sono state, e sono ancora, oggetto in quasi tutto il mondo. Per alcuni anni la giornata delle donne è stata celebrata in giorni diversi nei vari Paesi del mondo.
A San Pietroburgo, l’8 marzo 1917, le donne manifestarono per chiedere la fine della guerra. In seguito, per ricordare questo evento, durante la Seconda conferenza internazionale delle donne comuniste che si svolse a Mosca nel 1921 fu stabilito che l’8 marzo diventasse la Giornata internazionale dell’operaia.
In questa tendenza si è inserita anche l’Italia nel 1922, che ha celebrato la sua prima Festa della Donna il 12 marzo dello stesso anno.
Il 1975 è stato definito dalle Nazioni Unite come l’Anno Internazionale delle Donne e dall‘8 marzo di quell’anno i movimenti femministi di tutto il mondo hanno manifestato per ricordare l’importanza dell’uguaglianza dei diritti tra uomini e donne.
Fu importante, per la Festa della Donna, la fondazione dell’Unione Donne Italiane, associazione femminile nata nel 1944. L’UDI, in particolare, era alla ricerca di un fiore che potesse contraddistinguere la Giornata. L’idea della mimosa fu proposta da Teresa Noce, Rita Montagnana e Teresa Mattei.
In moltissimi paesi, del resto, è tradizione regalare fiori alle donne l’8 marzo, ma la relazione tra i fiori di mimosa e la Festa della donna c’è solo in Italia.
L’8 marzo, oggi, ha un po’ perso il suo valore iniziale. Mentre ci sono organizzazioni femminili che continuano a cercare di sensibilizzare l’opinione pubblica sui problemi di varia natura che riguardano il sesso femminile – come la violenza contro le donne e il divario salariale rispetto agli uomini – molte donne considerano questa giornata come l’occasione per uscire da sole con le amiche, lasciando mariti, compagni e figli a casa, e concedersi qualche “sfizio“, che magari in altre serate non sarebbe permesso, restrizioni covid permettendo…
Voi, come lo vivete, oggi, al tempo del Coronavirus e, più in generale, questo giorno “di festa”?
La strada da compiere è tutt’altro che conclusa e siamo ancora lontane dal constatare che le diseguaglianze sono state superate e i femminicidi in calo (anzi, rimangono costanti, crescendo quindi in percentuale rispetto al totale). Sì, perché sotto questa luce, il 2020 è stato un annus horriblis, anche per quanto riguarda i femminicidi, il peggiore in termini di percentuali dal 2000.
E, va detto, non basta un ramoscello di mimosa per dare la giusta importanza all’8 marzo, no?
Sono nata a Modena, correva l’anno 1972, modenese da generazioni (e me ne vanto), ma ligure di adozione dal 2007. La mia Genova, un po’ matrigna. Ti respinge, ma poi ti ama… Ho sempre sognato di fare la scrittrice: ero convinta che quel mestiere mi avrebbe portato a scoprire il mondo. Reporter di viaggi e inviata stampa, per vent’anni, esclusivamente sulla carta stampata, tra premi letterari e il profumo di qualche libro a mia firma. E poi? Un balzo sul digitale, nell’anno bisestile e, dulcis, al tempo del Coronavirus. Amante viscerale degli animali, della natura, del mare, dell’avventura, del viaggiare al di là dei confini del mappamondo per raccontare i veri luoghi e la vera vita della gente del mondo. Appassionata di comunicazione, letteratura di viaggio, sociale, cronaca di vita, fotografia, musica e libri. E di racconti, di storie, di tante storie da raccontare…
Baby boomers e nativi digitali: identikit di generazioni a confronto. Chi sono? Lo sviluppo tecnologico improvviso e intenso degli ultimi anni ha portato le nuove generazioni a vivere una vita totalmente diversa rispetto ai propri genitori o a chi li ha preceduti.
Dai Baby boomers (classe dal 1944 al 1964), che hanno dato vita alle rivoluzioni sociali ed economiche del dopo guerra e hanno vissuto un importante cambiamento culturale a cui si sono comunque adattati, alla Generazione X (nati dal 1965 al 1979), quelli che hanno vissuto la guerra fredda e l’avvento del personal computer, a quella Y o Millenials (nativi 1980 -1994), la generazione che ha vissuto in pieno l’avvento dei social e l’informazione veloce fino a quella Z o Post Millenials (dal 1995 al 2019), i figli della Generazione X e di internet: cresciuti solo con la tecnologia per la quale hanno un attaccamento smisurato.
Sono la prima generazione nativa digitale. È davvero così? La Gen Z può essere considerata davvero una generazione di nativi digitali? E, se sì, in che modo si riflette questo sulla quotidianità degli adolescenti? Se c’è un dato incontrovertibile è che la Generazione Z, originariamente chiamati Homeland Generation, è la prima nata dopo la nascita del web, cresciuti all’indomani dell’attacco dell’11 settembre alle Torri Gemelle e in un clima di paura e sfiducia.
Per la Gen Z, così, il vero rito di passaggio dall’infanzia all’adolescenza è rappresentato spesso dal possesso di uno smartphone o di un cellulare connesso a Internet: secondo una statistica del Pew Research Center, quasi tre quarti degli adolescenti di oggi ne ha uno, mentre appena il 12% di adolescenti non possiede un telefonino. Difficile pensare, allora, che qualsiasi azione quotidiana di questi giovanissimi non passi attraverso le tecnologie che si portano tutto il giorno “dietro”: la iGeneration, cioè, sarebbe la prima per cui la distinzione tra online e offline, tra vita reale e vita virtuale ha perso di senso e, ancora, la prima a vivere costantemente onlife.
Sono i nati tra il 1995 e il 2019, oggi hanno tra i 10 e i 25 anni, in Italia sono circa 8.8 milioni, di cui più di un milione nel mondo del lavoro. In maggioranza, sono i figli della X Generation (oggi, dai 40 ai 55 anni), non hanno mai conosciuto un mondo senza internet, smartphone o i-Pod
Mark Prensky, scrittore statunitense che ha coniato la definizione di “nativi digitali“, indica il 1985 come l’anno della grande svolta, dal quale i nuovi nati rientrano di diritto nella categoria dei millennials.
Nel 1985 inizia la diffusione di massa dei personal computer dotati di interfaccia grafica e dei sistemi operativi Windows. E’ l’inizio dell’informatica come la conosciamo oggi, una disciplina che contribuirà al cambiamento della società e del modo di vivere delle generazioni successive, del loro rapporto con gli altri e dei loro valori.
Anche conosciuti come Generazione Y (che sta per Yes), col termine millennials s’identificano tutti coloro che hanno raggiunto l’età adulta nel 21esimo secolo. Per alcuni i millennials sono semplicemente la generazione successiva alla cosiddetta Generation X, mentre per altri sono considerabili come tali solo gli individui definiti come “Nativi Digitali”, ovvero nati in un mondo dove è già fortemente presente la tecnologia digitale.
È stato Neil Howe nel 2000 a scrivere il libro “Millennials Rising”: il loro nome millennial deriva dal fatto che le loro idee, qualità, attitudini e valori si sono formate nel periodo di tempo nel quale vivono, ossia questo millennio. Sono figli di questo millennio, ecco perché millennial.
La familiarità dei millennials nativi digitali con la tecnologia di ogni grado e livello ha contribuito a creare in loro una sorta di parallelismo integrato tra ciò che è reale e ciò che è virtuale. Ad esasperare questa simbiosi tra realtà e mondo virtuale hanno contribuito i social network, Facebook e Twitter in primis.
In più di un’occasione gli esperti si sono interrogati sui rischi che provenivano da questa dipendenza dei più piccoli da tecnologie e ambienti digitali e sugli effetti che questo stato di costante connessione potesse avere su felicità e soddisfazione percepite, se non addirittura sulla salute mentale degli adolescenti. I risultati sono stati diversi, non sempre in perfetto accordo, se non quando si trattava di mostrare appunto come per i giovanissimi della Gen Z fosse impossibile distinguere la propria vita online da quello che succedeva appena disconnessi.
Ad oggi i millennials hanno un’età compresa tra i 25 e i 38 anni. Sono indipendenti, o almeno ci provano. La Generazione Y è cresciuta con la crisi economica degli anni 2000 ma crede, col duro lavoro, di poter raggiungere un’indipendenza economica, sono più responsabili, determinati, persino più parsimoniosi della generazione immediatamente precedente I millennials hanno bisogno di riconoscimento, di feedback, di una continua formazione e la ricerca di nuovi orizzonti del sapere, sono di mentalità aperta, cittadini del mondo, avventurosi, esperti nell’arte del “problem solving“, collaborativi, attenti alla politica più di quanto non si interessino i loro genitori e fortemente progressisti.
E’ passato un anno. Eh, sì, alla fine dello scorso febbraio, appariivano i primi casi di Coronavirus a Milano. E, da allora, le piattaforme digitali, soprattutto col lockdown, sono diventate gli unici, o quasi, mezzi di comunicazione e di “avvicinamento” sociale, di partecipazione culturale, benché virtuale, in grado di alleggerire la situazione di grande sofferenza fisica, psicologica, sanitaria, economica, educativa e finanziaria collettiva che ha investito le nostre vite… Tanti e tali i risvolti psicologici legati alla pandemia che ci hanno spinti a creare, a partecipare, a cercare progetti di supporto e sostegno per qualsiasi fascia di età.
Baby boomers, X, Y e Z: insomma, generazioni a confronto dove, però, la diversità è un valore e un punto di partenza nel mondo che cambia, nel tempo che corre veloce “in rete” come nella realtà, di oggi…
Sono nata a Modena, correva l’anno 1972, modenese da generazioni (e me ne vanto), ma ligure di adozione dal 2007. La mia Genova, un po’ matrigna. Ti respinge, ma poi ti ama… Ho sempre sognato di fare la scrittrice: ero convinta che quel mestiere mi avrebbe portato a scoprire il mondo. Reporter di viaggi e inviata stampa, per vent’anni, esclusivamente sulla carta stampata, tra premi letterari e il profumo di qualche libro a mia firma. E poi? Un balzo sul digitale, nell’anno bisestile e, dulcis, al tempo del Coronavirus. Amante viscerale degli animali, della natura, del mare, dell’avventura, del viaggiare al di là dei confini del mappamondo per raccontare i veri luoghi e la vera vita della gente del mondo. Appassionata di comunicazione, letteratura di viaggio, sociale, cronaca di vita, fotografia, musica e libri. E di racconti, di storie, di tante storie da raccontare…